giovedì 5 febbraio 2015
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Le piccole e medie imprese italiane si confermano un segmento solido e importante della nostra economia, come d’altronde chi conosce dall’interno questo mondo sostiene da tempo. Una costante che nemmeno la lunga crisi sembra aver scalfito nei suoi tratti essenziali. Tra gennaio e settembre dello scorso anno le esportazioni realizzate dalle 243.218 imprese di minori dimensioni hanno raggiunto un valore di 75,4 miliardi, con un aumento del 3,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, circa 2,5 miliardi in più. Questo dato, di fonte Confartigianato, è particolarmente significativo anche perché sul totale delle esportazioni realizzate nello stesso periodo dal nostro Paese, e pari a 282,5 miliardi, l’incremento percentuale è dell’1,7%, poco più della metà.
Mancando ancora all’appello i dati sul mercato domestico sarebbe fuorviante e prematuro utilizzare questi dati per decretare l’inizio della ripresa economica, anche se molti segnali vanno proprio in questa direzione. Molto più interessante è invece ricavare anche da questi numeri la conferma di una peculiare modalità di azione economica che attraversa, e in parte supera, il lungo periodo di crisi che stiamo vivendo. A chi denuncia i limiti, più o meno strutturali, del nostro fare impresa, si vuole qui opporre una posizione diametralmente opposta: non debolezze da superare, ma peculiarità da difendere. Non si tratta, allora, di valorizzare solo la piccola dimensione tipica delle nostre imprese, ma di estendere il riconoscimento ad altre caratteristiche quali la vocazione imprenditoriale, la proprietà familiare e l’attività prevalentemente manifatturiera. Queste caratteristiche, integrate fra di loro, costituiscono un unicum nel panorama economico internazionale in termini di contributo al prodotto interno lordo, capacità di export, numero di posti di lavoro e numero di imprese. Senza dimenticare la presenza e l’importanza di imprese di maggiori dimensioni, a proprietà diffusa, con prevalente gestione manageriale e operanti nel settore dei servizi e del terziario, nel nostro Paese il contributo sul totale di imprese di piccola e media dimensione, di proprietà familiare, a vocazione imprenditoriale e con attività prevalentemente manifatturiera, è tra i più alti in percentuale, ma spesso anche in valore assoluto, rispetto a quello realizzato da imprese a queste confrontabili in altre economie nazionali sviluppate.
È così, è bene ogni tanto ricordarlo, da molti decenni, almeno dall’ultima grave crisi che ha colpito il Paese nel quinquennio 1968-1973. Questa è la data della maturazione definitiva di un modello di sviluppo del tutto originale. Fu l’esito, assolutamente non previsto, della reazione dal basso ad alcuni accadimenti di quel periodo: la crisi, anche fallimentare, di note imprese di successo cresciute troppo rapidamente negli anni sessanta e trovatesi impreparate, anche per l’eccessiva dimensione, ad affrontare le turbolenze del momento; la crescita repentina del potere del sindacato con l’immediata conseguenza dell’aumento della conflittualità capitale-lavoro; le tensioni politiche e sociali dopo il lungo periodo di relativa coesione che aveva caratterizzato gli anni della ricostruzione e del boom economico; lo Statuto dei lavoratori, legge del maggio del 1970, e specificamente il suo articolo 18 (solo oggi in via di superamento con il Jobs Act) che permetteva l’assenza del sindacato nelle aziende con meno di quindici dipendenti.
Tutti questi fattori insieme permisero il "miracolo" e, con la ripresa di un ciclo economico positivo, suscitarono – in difesa e per paura di quanto era successo negli anni precedenti – il moltiplicarsi di imprese di piccola dimensione: laddove ad esempio operava un’impresa di novanta persone, con un processo di disintegrazione verticale ne nacquero sei da quindici. Prese così forma e si consolidò rapidamente il cosiddetto "made in Italy", l’Italia dei distretti e dell’imprenditorialità diffusa. La novità stava nell’aver coinvolto nella responsabilità aziendale nuovi strati di popolazione, fino ad allora operai, chiamati al rischio imprenditoriale dalla disintegrazione verticale di interi settori alla ricerca della riduzione dei costi di produzione: ciò rese l’attività imprenditoriale molto più capillare e diffusa sul territorio rispetto agli anni sessanta, in cui era ancora una professione per poche persone, e permise di sperimentare per la prima volta in epoca industriale l’equivalenza tra piccola dimensione ed efficienza e continuità aziendale. Il periodo e la dinamica con cui questo processo avvenne, tuttavia, fece sì che venisse marchiato all’origine come padronale, antisindacale, fiscalmente ambiguo e dunque tattico e congiunturale e, come tale, non degno di attenzione in quanto destinato a non assumere alcuna valenza strategica. Non si era capito, o potuto capire per le categorie culturali allora più utilizzate, che la fase iniziale, quella dell’operosità sulla difensiva, avrebbe invece permesso di verificare sul campo la praticabilità di ciò che le teorie negavano e trasformare la difesa in attacco, l’esternalizzazione in distretto, la subfornitura in azienda con un proprio mercato, l’agire apparentemente anarchico di tantissime imprese in una modalità strategico-organizzativa capace di attirare l’interesse in anni successivi di studiosi, politici e operatori a livello internazionale.
È questa originaria difficoltà di comprensione che giustifica ancora oggi lo stupore con cui taluni accompagnano l’emergere di dati positivi che riguardano le piccole e medie imprese. L’ulteriore aspetto da sottolineare è che dietro questi risultati c’è una naturale capacità di adattamento di queste imprese alle mutevoli condizioni del contesto competitivo. Non più solo o prevalentemente subfornitori o terzisti legati a monoclienti di cui costituivano sostanzialmente un’appendice produttiva, ma imprese capaci di diversificare la clientela, di diventare co-maker del cliente per la riconosciuta e apprezzata capacità di contribuire con la qualità del proprio lavoro alla realizzazione di un prodotto finale di valore o addirittura di andare al mercato di sbocco finale con propri prodotti; non più solo titolari di lavorazioni povere e marginali, capaci di competere sul mercato esclusivamente con la leva del costo, ma operatori di nicchie globali nell’ambito delle quali spesso è presente un numero limitato di aziende a livello mondiale, a volte molto più grandi. Non più solo, infine, imprese semplici da un punto di vista organizzativo e di gestione del personale, quasi da poterle identificare come flessibili perché disorganizzate, ma anche realtà imprenditoriali che hanno saputo sperimentare modalità innovative nel rapporto con i collaboratori e nella divisione verticale e orizzontale del lavoro.
Non si tratta certo della maggioranza delle piccole e medie imprese ad aver realizzato questi cambiamenti, ma il numero comunque consistente di esse ha un’importanza simbolica: dimostrare al proprio mondo di appartenenza la possibilità del percorso evolutivo e smentire definitivamente la facile equivalenza tra dimensione e complessità. Si potrebbe anzi affermare che questi cambiamenti, al di là del numero di imprese coinvolte, dimostrano come il vero limite non stia nella dimensione aziendale, ma nella cultura imprenditoriale che occorre dunque impegnarsi a fare crescere anche diffondendo la conoscenza degli esempi virtuosi. Per migliorarsi, infatti, la piccola impresa non deve necessariamente diventare grande, ma essere più sé stessa, andare al fondo della propria identità.
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