venerdì 13 marzo 2020
Il metodo utilizzato per valutare analisi e gestione del rischio
Perché non è facile scegliere tra la salute e l'economia
COMMENTA E CONDIVIDI

Per capire meglio i rischi da Covid– 19 possiamo dare uno sguardo ai metodi del risk assessment (analisi del rischio) e di quello del risk management (gestione del rischio). È da questi metodi infatti, che scaturiscono le informazioni e le decisioni sull’epidemia. Negli ultimi quarant’anni i metodi del risk assessment e del risk management sono diventati una vera scienza in molti ambiti come la medicina, l’igiene del lavoro, le scienze ambientali, la geologia (terremoti, frane, tsunami, inondazioni), l’ingegneria e la finanza. Le assicurazioni, in particolare, hanno sviluppato più intensamente e matematicamente il risk assessment perché esse hanno interesse a prevedere la probabilità e l’entità dei danni futuri.

La certezza sul nuovo coronavirus è che in buona parte ancora dominano le incertezze. Ciò dovrebbe renderci più clementi quando riceviamo informazioni divergenti, anche se autorevoli. Prendersela con chi ora produce i dati e le previsioni, infatti, sarebbe come prendersela col capitano della nave perché nella burrasca la nave rolla.

I parametri principali delle infezioni virali sono la contagiosità (quante persone, in media sono contagiate da un contagiato), la morbidità (quante persone si ammalano in percentuale sulla popolazione) e la mortalità (quante persone muoiono in percentuale sui ricoverati). Sembra accertato che il nuovo coronavirus abbia una morbidità e una mortalità superiori a quelle dell’influenza stagionale e quindi che sia più pericoloso di questa. Inoltre la caratteristica che lo rende subdolo e più pericoloso è che i pazienti manifestano sintomi solo molti giorni dopo il contagio. Le persone appena contagiate sono subito contagiose. Alcune di esse, però, presenteranno sintomi solo molti giorni dopo il contagio (fino a due settimane). Nel frattempo esse trasmetteranno il virus a molte altre persone. Nessun provvedimento può evitare questi contagi, a meno di mettere in quarantena l’intera popolazione. È per questo che in ogni Paese colpito metà o più della popolazione potrebbe venir contagiata, come ha scritto l’”Economist” il 27 febbraio. Del resto un contagio di milioni di persone in ogni Paese coinvolto dovrebbe essere plausibile a chiunque consideri il meccanismo subdolo di propagazione del virus anche in assenza di sintomi.

Qual è allora il nostro rischio? Comunemente il rischio è definito come l’entità del possibile danno, moltiplicata per la sua probabilità. Degli incidenti stradali, per esempio, si conosce la probabilità statistica. Per il coronavirus, invece, abbiamo in Paesi diversi una “forbice” di dati piuttosto larga quanto alla sua contagiosità, morbidità e mortalità. Il dan- no biologico alla persona dipende dalla pericolosità intrinseca di un agente (virus, batterio, veleno), moltiplicata per l’esposizione delle vittime. La reale esposizione di un cittadino al coronavirus, però, è molto incerta per i motivi che ho spiegato. I decisori pubblici devono essere informati del margine di imprecisione dei dati. Un loro fardello è quello di dover prendere decisioni anche in presenza di dati non sempre completamente affidabili. Quando dati decisivi divergono, sarebbe prudente prendere per buono il dato più infausto (per esempio 10, tra 1 e 10). Un altro operatore, però, potrebbe scegliere un dato intermedio (5, tra 1 e 10).

Nel contrastare la diffusione del virus l’elemento valoriale è il maggior fardello per il decisore pubblico, che è chiamato a decidere secondo scienza e coscienza




Dopo aver raccolto i dati e seguendone lo sviluppo nel tempo, inizia la parte più soggettiva del lavoro dell’analista–decisore. Questi, infatti, deve valutare l’affidabilità dei dati e stimarne le possibili variazioni nel futuro. Se il numero dei contagiati aumenta, per esempio, al ritmo del 10% alla settimana, fino a quando continuerà questo ritmo? Ci sarà un rallentamento? Un’accelerazione? Per un virus poco conosciuto come il coronavirus la scienza non può rispondere a queste domande, né prevedere le sue future manifestazioni (se non per analogia con virus analoghi). Il decisore, quindi, dovrà calcolare alcuni scenari diversi, per essere pronto a fare fronte a ognuno di essi, sapendo inoltre che potranno verificarsi anche ulteriori scenari che egli non aveva calcolato. Infine viene la parte più onerosa per le autorità, ossia la decisione dei provvedimenti.

La scelta di quali dati considerare affidabili e la stima di come essi cambieranno in futuro è un’operazione scientifica, benché in parte soggettiva. Quando si devono prendere decisioni per le quali i dati sono incerti e la posta in gioco è alta si parla di “ scienza postnormale”. Mentre la scienza “ normale” dà risultati certi, la “ scienza postnormale” genera un ventaglio di opzioni senza poterci dirci quale è la migliore, obbligandoci così a includere elementi valoriali nel processo di valutazione e decisione.

Nel risk management (gestione del rischio) la soggettività è ancora più grande che nel risk assessment (analisi del rischio). Il processo decisionale, infatti, implica un elemento conoscitivo, uno socio– tecnico, e uno valoriale. L’elemento conoscitivo consiste nella misurazione e selezione dei dati che si ritengono necessari e nel giudizio (soggettivo) sulla loro affidabilità e sul loro andamento futuro. L’elemento socio–tecnico riguarda il tentativo di previsione dei vantaggi e degli svantaggi sanitari, sociali ed economici dei provvedimenti. L’elemento valoriale, infine, riguarda il maggior vantaggio o svantaggio di salute o di sopravvivenza per gruppi diversi di cittadini generato dai provvedimenti. Comprensibilmente, l’elemento valoriale è il maggior fardello per il decisore.

Esso è tanto grande, che spesso egli non lo vede. Eppure, il giudizio valoriale è sempre presente quando l’autorità deve influire sulla vita o sulla morte di un collettivo di persone. Si pensi per esempio ai limiti di velocità sulle strade extraurbane: più sono alti e più avvengono incidenti mortali. L’unica cosa sicuramente ingiusta è fare le parti uguali tra soggetti non uguali. Differenti categorie di persone, infatti, hanno bisogno di differenti livelli di protezione (”Prima le donne e i bambini!”), e categorie più forti ne hanno bisogno di meno. Per fare un esempio estremo, in guerra il decisore deve scegliere spesso di sacrificare qualcuno per salvare qualcun altro. Si pensi allo sbarco in Normandia. Ovviamente, però, la situazione attuale è molto meno drammatica di quella di una guerra.

Per prevenire la diffusione del coronavirus le attuali maggiori decisioni riguardano la concorrenza tra la protezione di due beni: la salute delle persone e la salute dell’economia. La massima protezione della salute si otterrebbe con il massimo confinamento delle persone. Di tutte le persone. Ciò però provocherebbe il massimo danno all’economia, praticamente congelandola. Si tratta quindi di spostare il cursore nella posizione “migliore” tra la protezione di questi due beni (salute e economia). Questo però non è così semplice. Da una parte della scala su cui muoviamo il cursore c’è un unico parametro, la vita umana. Dall’altra parte, invece, ci sono decine di milioni di cittadine e cittadini, che sono anche soggetti economici, e infine la macroeconomia, ossia l’insieme di tutti costoro.

Allora, chiederete, che fare? Per i motivi che ho esposto non sono io a poter dare una risposta. Il mio intento è di aiutare a comprendere la complessità e le incertezze che portano le autorità a decisioni che a volte ci sembrano esagerate o insufficienti, ma dietro le quali in genere ci sono una logica e una serie di competenze. Di fronte a tante incertezze le autorità fanno quello che possono secondo scienza e coscienza. Loro stesse sanno che faranno cose probabilmente giuste. Ma forse no. Impariamo a saperlo anche noi.

Docente di metodi decisionali, Politecnico di Zurigo

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI