mercoledì 30 settembre 2015
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Barack Obama non incontrava Vladimir Putin per un colloquio a due da quasi un anno e mezzo. Lunedì invece l’ha fatto. Lecito quindi porsi una domanda: che cos’è cambiato per convincere il 'leader del mondo libero' a sedersi di fronte al 'paria della politica internazionale'? Questioni che giustifichino un tale colpo di scena ce ne sono solo due: l’Ucraina e la Siria. In Ucraina non è cambiato nulla, e quel poco è cambiato in un modo che può piacere sia a Putin sia a Obama: il governo di Kiev ha dovuto approvare una legge che concede maggiori autonomie alle province dell’Est, in linea con quanto chiesto dal Cremlino; e lo stesso Governo ha approvato una nuova dottrina militare che prevede l’adesione alla Nato, proprio ciò che gli Usa volevano sin dall’inizio. Da quelle parti, insomma, il solito stallo.   Allora dev’essere la Siria. Da quelle parti, in effetti, sono cambiate molte cose. La prima, e più importante, è che il mondo si è stancato del solito pasticcio americano. La scintilla della guerra civile fu innescata da Bashar al-Assad, reagendo con brutalità inaudita, nel 2011, a richieste di maggiore democrazia che non erano certo più pressanti di quelle assorbite con più sapienza politica dalle monarchie della Giordania e del Marocco. Ma poi il desiderio americo-saudita di far fuori l’avversario siriano si è consumato sulla pelle del Medio Oriente. I sauditi hanno continuato a rifornire le milizie islamiste. Gli Usa hanno minacciato di bombardare l’esercito regolare di Assad, cosa che avrebbe spalancato le porte ai tagliagole. Infine, una volta varata, la coalizione anti-Is ha badato a contenere gli islamisti in Iraq lasciando loro campo libero in Siria, nella speranza che facessero finalmente fuori Assad.   Risultato: un carnaio di 250 mila morti in Siria, dove molti continuano a combattere per Assad visto che l’unica alternativa è l’Is; il caos nella regione, con milioni di profughi a invadere Libano, Giordania e Kurdistan e a preoccupare la Turchia; turbolenze in Europa, dove si è riversata una parte dei siriani che non riusciva a scorgere alcuna speranza in patria. Più una serie di malumori assortiti contro la Casa Bianca in tre Paesi chiave. In Arabia Saudita, a causa della battaglia sul prezzo del petrolio (gli Usa sono ormai i primi produttori mondiali, come pure nel gas) e della radicale diversità di pareri (Obama a favore, re Salman contrario) sull’intesa con l’Iran a proposito del nucleare. In Turchia, dove gli Usa hanno ottenuto l’accesso alle basi militari dopo lunghe insistenze e solo a patto di lasciare a Erdogan mano liberi contro i curdi. E in Egitto, dove il generale Al Sisi non dimentica la benevolenza con cui Obama guardò alla stagione in cui al potere c’erano i Fratelli Musulmani.   In questo quadro, Vladimir Putin ha saputo giocare di contropiede. La pretesa strategica americana (non si parla di Siria se prima Assad non se ne va) pare sempre più assurda, visto che la scelta è tra Assad e l’Is, cioè tra la padella e la brace. E la condotta tattica sul campo non ha fatto che impreziosire il contributo dell’Iran, che ha schierato in Iraq i suoi pasdaran e ha così impedito all’Is di arrivare fino a Baghdad. Per cui, quando gli aerei da carico russi hanno cominciato a sbarcare uomini e mezzi in Siria, i genieri a costruire due nuove basi militari nei pressi di Latakia e i giornali del Medio Oriente a diffondere la notizia che i droni russi avevano cominciato a colpire ad Aleppo e Palmira, nessuno ha mosso troppe obiezioni. Certo, agli Usa la cosa non è piaciuta, anche perché certifica il loro fallimento. Ma gli altri… Vale più o meno per tutti quanto dichiarato dal ministro degli Esteri della Germania, Frank-Walter Steinmeier, che incontrando il collega americano Kerry ha detto che in Siria urge una soluzione politica, (tradotto dal diplomatichese: bisogna parlare anche con Assad) e che contro l’Is sarebbe bene formare una vasta coalizione comprensiva della Russia, dell’Iran e dell’esercito regolare siriano.   Giocando di sponda sugli errori altrui, Putin si è messo in una posizione in cui ha solo da guadagnare: se gli Usa lo accetteranno come partner nella guerra (questa volta vera ) contro l’Is, avrà benemerenze; se gli Usa diranno no, ogni giorno in più di Is andrà sul loro conto; qualunque cosa succeda, infine, il Cremlino sembrerà più sensibile alle sofferenze del Medio Oriente della Casa Bianca. La domanda vera, quindi, è: perché Putin fa tutto questo? Tante manovre e l’ennesimo confronto con gli Usa solo per salvare Assad? La risposta viene dalla mossa dei giorni scorsi: la creazione, nella capitale irachena Baghdad, di un centro di coordinamento delle forze militari russe, siriane e iraniane, più le milizie sciite ispirate da Teheran, per la lotta contro l’Is. È facciata più che sostanza ma spiega bene a che cosa tenga davvero Mosca: salvare la Mezzaluna Fertile sciita, quell’arco di Paesi che va dall’Iran al Libano, passando per Iraq e Siria, e che si contrappone alla galassia sunnita tradizionalmente alleata degli Usa. Una catena è solida quanto il suo anello più debole, se cadesse la Siria (e la Turchia se ne prendesse magari un pezzo), tutta la Mezzaluna salterebbe in aria.   Per questo, e non certo per quel che vale Assad, o per quel che conti la base navale di Tartous (figuriamoci, con il Mediterraneo pieno di basi Usa e Nato), la Siria è preziosa al Cremlino. L’ancoraggio con il mondo sciita consente alla Russia due cose fondamentali. Da un lato, essere ben presente in Medio Oriente, regione ancora decisiva (sia per la produzione, sia per le riserve accertate che qui sono il 40% di quelle mondiali, sia per il transito del greggio attraverso lo Stretto di Hormuz nel golfo Persico) nella dinamica dei prezzi del petrolio. Un presidio che la Russia, ancora oggi debitrice a gas e petrolio di circa il 50% del Prodotto interno lordo, non può permettersi di perdere, soprattutto ora che in Ucraina…   Ecco, l’Ucraina c’entra molto con l’accanimento pro-Assad e pro-Siria della Russia. Per la prima volta dopo mille anni, la Russia ha perso il controllo dell’Ucraina (e con essa di oleodotti e gasdotti decisivi per la forniture all’Europa), entrata nell’orbita americana. Si è così compiuto il percorso iniziato negli anni Novanta con l’unilateralismo di Bill Clinton. Una sconfitta sanguinosa, solo in parte lenita dall’annessione della Crimea e dalla maggiore autonomia ottenuta con la guerra per le regioni russofone del Donbass. L’influenza in Medio Oriente, Assad, la guerra contro l’Is… Al di là di eventuali motivazioni ideali (i russi hanno conosciuto bene il terrorismo islamico in Cecenia), queste sono carte da giocare nell’unica partita davvero decisiva. Che per Mosca, anche a Novecento finito, resta quella con gli Usa.
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