giovedì 31 marzo 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Caro direttore,  non sono passati neanche sei mesi dagli attentati di Parigi, che un nuovo atto dinamitardo a Bruxelles ha colpito al cuore l’Europa e una strage di innocenti, proprio nel giorno della Pasqua, ha insanguinato Lahore, in Pakistan. Una nuova ondata di dolore e paura che non pochi sciacalli politici cercano di sfruttare a proprio vantaggio fomentando l’odio razziale, l’avversità religiosa, l’ostilità verso gli immigrati. Cattivi consiglieri che se dovessero affermarsi condannerebbero tutti noi a un futuro di violenza e terrore. Mi concentro sull’Europa. Perché l’Europa deve reagire, ma non di pancia o di muscoli, bensì di testa e di cuore, perché razionalità e morale sociale sono le uniche strade che possono tirarci fuori dalla spirale di violenza. Il primo elemento che emerge da una lettura razionale della situazione è che anche in terra europea i kamikaze non provengono 'da fuori' – dall’Iraq, dalla Siria, o dall’Afghanistan. Non sono stranieri, ma persone con passaporto europeo, che pur portando nomi e cognomi arabi od orientali sono nati e cresciuti in Europa. Ma la domanda è: come sono cresciuti? Ossia con quale stato d’animo sono passati dalla fanciullezza all’età adulta? Su quali sentimenti si è strutturata la loro personalità? Solo ponendoci queste domande potremo capire le ragioni profonde del fanatismo che portano alla follia terrorista, per giunta di tipo suicida. Ma queste domande evitiamo accuratamente di porcele perché ci costringerebbero a spostare l’attenzione da loro a noi. Da loro alla nostra società. Quello che 'Avvenire' ha invitato a fare già all’indomani della strage di Bruxelles. Se ci applicassimo a questo, a un tratto, a finire sotto processo non sarebbero più solo loro, i diversi, gli scuri di pelle, gli appartenenti a un’altra religione, ma anche la nostra impostazione culturale, la nostra organizzazione sociale, la nostra dottrina economica. Un’analisi che ci mette paura perché al di là delle teorie della concorrenza, del mercato, del merito, della virtù sociale del tornaconto personale, del valore supremo della proprietà privata, valide solo per i libri, i risultati concreti sono iniquità, classismo, disoccupazione, miseria, sfruttamento. In una parola il risultato è quella società 'dello scarto' che papa Francesco tanto denuncia. Società dello scarto che produce frustrazione, rabbia, risentimento e sentimenti che possono condurre menti offuscate a gesti folli. Pur avendo compiuto passi da gigante sul piano tecnologico, su quello comportamentale siamo ancora all’età della pietra. L’evoluzione umana non si misura con la capacità di andare su Marte, ma con la capacità di farsi l’esame di coscienza. L’uomo primitivo risponde con la legge del taglione, l’uomo evoluto risponde mettendosi in discussione. Se solo avessimo un minimo di capacità di autocritica, non ci metteremmo molto a capire che la situazione di guerra, esodi di massa, terrorismo, in cui ci troviamo, è il risultato di 700 anni di errori dove ha prevalso la prepotenza, l’angheria, la rapina, la violenza. Metodi coloniali che stanno tornando drammaticamente alla ribalta come mostra il land grabbing, l’accaparramento di terre da parte di potenze emergenti e grandi multinazionali. Un fenomeno che produce 'senza terra' e quindi emigranti come mostra il caso dell’Etiopia: mentre il 35% della popolazione soffre la fame, le terre migliori sono cedute ad aziende che producono solo per l’esportazione. Ossia per il proprio esclusivo profitto. La parola più ricorrente ai giorni nostri è 'crisi'. Crisi sociale, crisi economica, crisi esistenziale, crisi ambientale. Secondo il significato moderno crisi è sinonimo di 'difficoltà'. Secondo i greci, invece, era 'capacità di giudizio'. Solo recuperando questo significato l’umanità potrà salvarsi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: