«Svuotacarceri: sicurezza a rischio; regalo dello Stato alla criminalità». Sono le parole che sentiamo ogni volta che si invoca un provvedimento di clemenza per far fronte al degradante sovraffollamento delle carceri. In genere, ad alzare queste grida sono coloro che in carcere non sono mai entrati (o si sono fermati alle salette ove avvengono gli interrogatori). E che magari a volte ci dicono che nelle nostre carceri si sta fin troppo bene. È un vizio antico: se è vero che un secolo fa Mussolini polemizzava contro chi voleva «convertire le carceri in collegi ricreativi piacevoli, dove non sarebbe poi tanto ingrato il soggiorno».
Bisogna aver visto il carcere, per parlare di carcere. Bisogna aver capito che è un arcipelago. Dove, accanto a realtà positive – in cui, grazie a direttori e a personale che fanno i salti mortali, abbiamo celle chiuse solo di notte, laboratori, palestre, corsi di studio, apertura alla società – vi sono realtà infernali, non solo per la ristrettezza degli spazi ma per le condizioni di vita: eccessiva chiusura delle celle ed esclusione del detenuto da spazi comuni; mancanza di opportunità lavorative, di studio, di refettori; insufficiente ventilazione delle celle. Insomma: tradimento della riforma del 1975 che prevede un trattamento che assicuri «il rispetto della dignità della persona» e a tal fine disciplina caratteristiche dei locali, igiene, sanità, istruzione, lavoro, apertura verso le comunità esterne. Non vedere queste realtà significa farsi trascinare da quel «soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria» di cui ci parlava Calamandrei.
Quel soffio che, nei primi mesi del Covid, con i detenuti stipati in celle sovraffollate, faceva dire a qualcuno che, in fin dei conti, «il carcere, essendo isolato, è il luogo più sicuro contro il contagio». Quel soffio che, a commento dei pestaggi nel carcere di S. Maria Capua Vetere (con manganellate su un uomo sulla sedia a rotelle e calci su detenuti già immobilizzati a terra), faceva dire in Parlamento, ad un sottosegretario alla Giustizia, che si trattava di una «doverosa operazione di ripristino della legalità». Ci può essere però una ragione meno banalmente crudele per essere contrari a clemenze generalizzate. Perché sia l’amnistia (che cancella i reati meno gravi) sia l’indulto (che opera uno sconto di pena per tutti gli altri reati) rasano il campo in modo indifferenziato: tagliando allo stesso modo il grano e il loglio. Livellando i diversi percorsi di recupero dei condannati, negano loro quel trattamento differenziato (affidato ai magistrati di sorveglianza) che è alla base del nostro ordinamento penitenziario. E lasciano spesso le parti offese dei reati cancellati con la pericolosa sensazione di subire un secondo torto. Eppure, anche chi condivide queste preoccupazioni non può chiudere gli occhi di fronte alle 86 persone morte suicide in carcere da inizio anno (il numero più alto da sempre). Non può ignorare che l’attuale sovraffollamento carcerario è la principale causa della disperazione che porta questi detenuti a togliersi la vita. Avvenire lo scrive da anni. Per evitare che queste situazioni si ripetano, c’è bisogno di quegli interventi strutturali che già il Presidente Napolitano aveva indicato: carcere come extrema ratio, effetto meno rigido della recidiva, nuove assunzioni di personale, costruzione di nuove carceri, soprattutto di carceri a “bassa sicurezza” e semi-aperte, in cui scontino la pena condannati a sanzioni lievi (e dunque con basso rischio di evasione) che possano essere ammessi al lavoro esterno (che, grazie alla legge n. 94 del 2013, può essere anche “volontario e gratuito”). Ma poiché in tutti questi anni i governi, di diverso colore, non hanno realizzato questi interventi, l’emergenza di oggi chiama provvedimenti di emergenza. Come ha scritto Glauco Giostra su queste colonne: « La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi».
Se si ritiene impercorribile la via dell’indulto e amnistia (perché sarebbe difficile raggiungere in Parlamento quella maggioranza dei due terzi prevista dall’attuale art. 79 Cost.), allora si riprenda la proposta Giachetti (messa da parte dal Parlamento) che prevede l’ampliamento del già esistente istituto della liberazione anticipata, con un maggior “sconto” per i detenuti meritevoli per la loro condotta. C’è bisogno di un nuovo inizio. Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, oggi e domani, più gravi e generali ingiustizie. Di cui il nostro Stato è il maggior colpevole.