Pensare la fine. Accogliere la luce
venerdì 20 ottobre 2017

Quasi tutti cerchiamo di non pensarci. Se quell’idea ci viene in mente, rapidamente ce ne distogliamo. E se qualcuno fra gli amici la evoca, c’è persino chi fa gli scongiuri. Nessuno normalmente osa venirci a esortare: 'Pensa a quel giorno'. Francesco lo ha fatto mercoledì in Udienza generale: «Io vi invito, adesso, a chiudere gli occhi e a pensare a quel momento: della nostra morte. Ognuno di noi pensi alla propria morte, e si immagini quel momento che avverrà…» Ma è un’esortazione, quella in piazza San Pietro, che non sente per niente dell’aura lugubre che tocca ogni usuale discorso sulla morte. Sono illuminate invece, le parole del Papa, dalla luce di un’immensa speranza. Quel momento, ha detto, «quando Gesù ci prenderà per mano e ci dirà: 'Vieni, vieni con me, alzati'(…) 'Alzati, vieni. Alzati, vieni. Alzati, risorgi!'». Alzati, vieni. Con quale forza il Papa fa irruzione nel tabù del nostro silenzio. Si parla tanto del modo in cui si muore e di dignità della morte, ma raramente dell’istante dopo. Di che ne è di noi, e più ancora di che ne è delle persone che amiamo, giacché la morte loro ci è più insopportabile della nostra.

È vero, come ha detto Francesco, che, nel silenzio che avvolge la morte nel nostro tempo, quando questa arriva ci troviamo impreparati, «privi anche di un alfabeto adatto per abbozzare parole di senso attorno al suo mistero». Chi scrive proprio recentemente si è trovata davanti a un’amica, non praticante, che ha perso d’improvviso una madre amatissima. E quest’amica piangendo continuava a porre una domanda sola: «Ma tu puoi dirmi, tu puoi giurarmi che in quell’istante mia madre non si è trovata sola nel freddo, nel buio, tu puoi dirmi che qualcuno la ha presa per mano e accompagnata?». La voce del Papa sembra la risposta a questa donna e a milioni di altre e di altri, quando si trovano messi a nudo dalla morte, e svuotati di ogni inutile parola – di quelle che pronunciamo ogni giorno, a bizzeffe. Francesco promette che Cristo verrà, in quell’ora, e ci prenderà per mano, e ci dirà di alzarci – come lo ordinò a Lazzaro esanime nel sepolcro, con imperioso amore. Perché la morte è, dice Francesco, «uno sfregio che deturpa il disegno di amore di Dio». E Cristo è venuto a liberarcene, scendendo negli Inferi, attraversando la morte e per lunghe ore fronteggiandola, faccia a faccia. Poi, vinta la immane battaglia, è risorto.

Se Lui non fosse risorto anche noi, morendo, saremmo morti per sempre. Noi e i nostri genitori, e i nostri figli. C’è qualcosa di più intollerabile che pensare che un figlio, morendo, finisca nel nulla? È questo il tarlo che ci mina, nel nostro tabù, nel nostro censurare l’ultimo nostro destino: il dubbio del nulla. E proprio in questo silenzio il tarlo lavora e rode. Non gli facciamo caso. Fino a quando un dolore, un lutto non ci scuote d’improvviso, come alberi piegati dalla tempesta. Allora ci risvegliamo, e per quanto lontani o dimentichi cerchiamo chi ci testimoni che noi e i nostri cari viviamo ancora, che la promessa di Cristo è vera. Francesco: «Tutta la nostra esistenza si gioca qui, tra il versante della fede e il precipizio della paura. Dice Gesù: 'Io non sono la morte, io sono la risurrezione e la vita, credi tu questo? Credi tu questo?'. Noi, che oggi siamo qui in piazza, crediamo questo?». Umanamente raro, in questo nostro tempo, trovare chi senza timore, quasi senza pudore, stani la antica nemica dall’angolo in cui la abbiamo relegata. Ma c’è in fondo, nelle parole del Papa, la stessa pacata audacia di cui si trova traccia sulle lapidi delle catacombe di Roma. Alfa, Omega, e un nome. Oppure un epitaffio di appena tre parole, come questo: « In vivis tu ». Tu sei fra i vivi. Nel buio di una catacomba, già quella splendente, inaudita certezza.

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