giovedì 20 settembre 2018
Tre impegni per il Global Compact sui flussi di persone. L'Onu e i nodi verso un governo della mobilità umana
Migranti e rifugiati nel campo di Moria sull'isola greca di Lesbo (Ansa/Ap)

Migranti e rifugiati nel campo di Moria sull'isola greca di Lesbo (Ansa/Ap)

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Con la 'Dichiarazione di New York' (settembre 2016), i 193 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto la necessità di rafforzare la governance multilaterale delle migrazioni, avviando il processo per lo sviluppo di un patto globale che dovrebbe essere adottato in occasione della conferenza intergovernativa programmata per il dicembre 2018 a Marrakesh. L’urgenza di costruire un sistema internazionale per la gestione delle migrazioni è autoevidente: quella umana, infatti, è l’unica realtà ancora non protetta da un apparato di regolazione analogo a quelli che disciplinano le transazioni finanziarie o il commercio di merci, beni e servizi. Certo non siamo all’anno zero: molteplici sono le iniziative avviate nel quadro di accordi bilaterali e multilaterali e, tra di esse, lo sforzo pluriennale per la comunitarizzazione della materia (e qui, nonostante le sue vistose criticità, l’Unione Europea resta l’esperienza più avanzata di collaborazione multilaterale). La stessa presenza, in seno alle Nazioni Unite, di due agenzie specializzate – Oim e Acnur/Unhcr – indica i progressi realizzati nella cooperazione a livello globale. Negli ultimi decenni si è inoltre assistito allo sviluppo di accordi di collaborazione e al lancio di forum di dibattito e condivisione delle esperienze, con un ruolo importante svolto dai soggetti della società civile (liberi dai vincoli che ingessano l’iniziativa dei governi), dalle organizzazioni religiose (spesso nel quadro di iniziative ecumeniche), dalle amministrazioni locali (attraverso, per esempio, la costruzione di reti di città impegnate nell’accoglienza).

Tuttavia, il traguardo di uno strumento organico di cooperazione multilaterale è finora rimasto disatteso. E non mancano gli ostacoli alla sua realizzazione. In primo luogo, il controllo delle frontiere, rappresentato come l’ultimo vessillo della sovranità nazionale, è una posta in gioco determinante della competizione politica. La 'protezione' dei confini (fisici, politici e soprattutto identitari) costituisce un obiettivo irrinunciabile per i governi, indipendentemente dalla loro colorazione, insieme a quello di evitare le intrusioni di attori esterni (sui quali semmai si scarica la responsabilità dei fallimenti). Esigenze che hanno condotto l’amministrazione Trump all’infelice decisione di abbandonare i negoziati per i Global Compact, e che renderanno l’accordo finale non vincolante per gli Stati firmatari. Sulla disponibilità a cooperare pesa anche la divergenza di interessi degli attori in campo. I Paesi del cosiddetto Sud globale mirano soprattutto a incamerare flussi di valuta e investimenti, oltre che alla possibilità di 'esportare' i propri disoccupati. Per quelli del Nord, obiettivo prioritario è contrastare i flussi irregolari e l’immigrazione 'indesiderata', insieme alla possibilità di attrarre la cosiddetta immigration choisie, l’immigrazione selezionata.

Infine, certo non giova il diffuso scetticismo sulle potenzialità della cooperazione in questa materia, a fronte dei fallimenti del passato e dei rischi di un comportamento strumentale da parte degli attori in gioco. Circostanza che concorre a spiegare il tiepido interesse, e le basse aspettative, verso l’iniziativa dei Global Compact. Tuttavia, il sostanziale fallimento – tanto sul piano politico quanto sul piano etico – del governo della mobilità umana è una ragione più che sufficiente a incoraggiare gli sforzi per costruire un sistema di governance per una migrazione sicura, ordinata e legale, come recita il testo della proposta. Ovvero per non sprecare l’occasione che si è aperta grazie all’iniziativa dell’Onu.

Indice plateale di tale fallimento è la distanza tra gli obiettivi ufficiali delle politiche migratorie e gli effettivi volumi e composizione dei flussi, insieme alla diffusa percezione nell’opinione pubblica dell’inefficacia dell’azione di governo. Ma è anche la tolleranza – quando non addirittura l’aperto sostegno – verso le prassi di aggiramento del quadro normativo, che ormai investono anche un istituto come il diritto d’asilo, concorrendo alla sua progressiva delegittimazione. Per non parlare dei rimpalli di responsabilità e le accuse reciproche tra Paesi che rischiano di travolgere l’Unione Europea e il suo principale frutto, l’abolizione delle frontiere interne.

Ancor più scandaloso il fallimento sul piano etico, testimoniato da una distribuzione assolutamente iniqua dei profughi e rifugiati, concentrati nei Paesi più poveri, e dal diffuso tentativo di sottrarsi ai propri obblighi in materia di protezione e accoglienza. La stessa Europa, culla dei diritti umani, si è spesso resa protagonista di politiche di 'esternalizzazione dei confini' attraverso intese coi Paesi terzi – una pratica applicata ben prima degli accordi con la Turchia e la Libia – che consentono di eseguire altrove, lontano dai nostri occhi, il gioco sporco.

Il rischio che gli strumenti impiegati nel 'governo' delle migrazioni violino princìpi cardine delle nostre democrazie è stato ripetutamente segnalato dagli esperti. Peraltro, tali strumenti non sono stati in grado né di ridurre la pressione migratoria, né di evitare il ricorso improprio alla richiesta di asilo che sta mettendo sotto pressione, compromettendone la tenuta, il sistema di protezione dei rifugiati. Ovvero quello che è ad oggi l’unico esempio di cooperazione multilaterale istituzionalizzata a livello globale, operante sotto l’egida dell’Onu in base a una convenzione sottoscritta da tutte le democrazie liberali (e da molti altri Paesi). Ma che sconta la sua progressiva inadeguatezza di fronte alla conformazione straordinariamente complessa della mobilità umana, che rende sempre più porosa la distinzione tra migrazioni forzate e volontarie. Le migrazioni dal Sud al Nord del globo vanno infatti inquadrate, come ci ricorda con allarme il Papa, nelle logiche espulsive e predatorie che caratterizzano gli attuali regimi di accumulazione e che producono grandi quantità di 'scarti umani'. Proprio questa circostanza rende prioritario investire nel rafforzamento della governance globale della mobilità umana. Un obiettivo che però richiede tre passaggi fondamentali, sui quali far convergere gli sforzi della buona politica e dell’impegno civile. Innanzitutto, occorre la volontà di distribuire non solo i costi – secondo la tendenza finora prevalente, specie in sede europea – ma anche e soprattutto le responsabilità nella gestione di questo fenomeno epocale. Ciò implica una distribuzione più equa dell’impegno per l’accoglienza (sgravandone in particolare i Paesi più poveri) e il superamento di quelle derive economicistiche che piegano la gestione delle migrazioni a una conta del loro impatto sul mercato del lavoro e sui bilanci pubblici.

Altrettanto fondamentale è il passaggio dalla logica del contenimento a quella di un autentico governo dei flussi. Si tratta, tra l’altro, di ripensare non solo le politiche migratorie (superando l’imperante ortodossia restrittiva), ma anche il diritto alla mobilità, oggi soggetto a un regime dei visti chiaramente iniquo, che riflette e amplifica le disuguaglianze tra Paesi e tra gruppi sociali. E si tratta, anche, di lavorare nelle e con le comunità d’origine alla ricerca di soluzioni alternative alla migrazione quando quest’ultima impatta negativamente sulla sostenibilità dei modelli di sviluppo, e a maggior ragione quando si realizza secondo modalità lesive della dignità umana. Infine, è necessario che la gestione delle migrazioni sia sempre più integrata negli obiettivi di sviluppo sostenibile che la comunità internazionale si è data con l’Agenda 2030. Le migrazioni, infatti, intercettano tutti i grandi temi che coinvolgono e affliggono le persone, le società locali, gli Stati e la comunità internazionale: dalla povertà alla questione ambientale; dalla sicurezza all’occupazione; dagli squilibri demografici alla convivenza interreligiosa. Nella gestione delle migrazioni, la convenienza politica e il vantaggio economico immediati (per i Paesi di destinazione come per quelli d’origine) devono allora cedere il passo a un’intelligenza prospettica, che miri a uno sviluppo equo, inclusivo e sostenibile da realizzarsi anche attraverso l’eticizzazione delle politiche e delle pratiche migratorie.

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