mercoledì 23 ottobre 2013
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Caro direttore,
la ringrazio per il lusinghiero interesse verso il mio libriccino "La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!" (Laterza). Naturalmente mi sarebbe piaciuto che accanto alle espressioni di fastidio (laicismo "scontato" e "stereotipato") il suo editorialista avesse imbastito uno straccio di argomentazione, almeno contro una delle mie tesi. Ad esempio, contro quella centrale per cui «la fede deve essere relegata a fatto privato». Tesi assurda? Io ho provato a dimostrarla così: la democrazia liberale non si riduce al voto, essenziale è il costante dia-logos tra tutti i cittadini, attraverso cui argomentare razionalmente e convincersi a vicenda. Su molte leggi ci si dividerà, ma «a ragion veduta». Altrimenti la democrazia diventa «muscolare» e dalla mera conta dei voti si passa facilmente ad altri rapporti di forza. Ma in un dia-logos razionale io non posso sostenere una mia proposta di legge (ad esempio favorevole al suicidio assistito) «perché sì». Non sarebbe argomentazione ma ukase. E lei, che immagino sia contrario al diritto all’eutanasia, non potrebbe cavarsela con un «perché così vuole Dio», visto che la sua fede può essere un argomento solo per chi la condivide ma rispetto ad ogni cittadino miscredente o diversamente credente sarebbe mero "flatus vocis". Se per essere tutti con-cittadini fra tutti noi ci deve essere dia-logos, l’argomento Dio e l’argomento «perché sì» non possono avere cittadinanza, sono entrambi dogmatici, sono l’opposto dell’argomentazione. Lei dovrà trovare argomentazioni puramente "terrene" per sostenere che l’assistenza al suicidio venga punita fino a 12 anni di carcere (questa la legge attuale). Cioè argomentazioni atee, da a-theos, Dio preceduto dall’alfa privativo. Nella vita pubblica il cittadino credente, poiché tenuto ad argomentare, deve lasciare Dio a casa. Aggiungevo: esattamente come accade allo scienziato credente (sono un’esigua minoranza ma ci sono) che lascia il suo Dio nel vestibolo del laboratorio, dove valgono ipotesi e controlli empirici tra i quali Dio onnipotente, anima immortale e altri articoli di fede non sono ammessi.
Capisco che un dia-logos per argomenti razionali metta i credenti in difficoltà sulle questioni bioetiche «non negoziabili». Come pretendere, ad esempio, che la mia vita non appartenga a me, e quindi non riconoscere il mio diritto a decidere liberamente sul mio fine vita, anche facendomi aiutare ad abbreviarlo, se ritengo che ormai sia per me solo tortura? Con argomenti puramente "terreni" è impossibile riuscirci, e tutti i cardinali che negli anni hanno discusso con me pubblicamene (Ratzinger, Scola, Herranz, Tettamanzi, Caffarra, Piovanelli …) hanno dovuto "arrampicarsi sugli specchi". Solo se facciamo intervenire Dio, e la mia vita come Suo dono, la mia decisione può essere messa in discussione (ma un dono che non si può rifiutare è davvero un dono? Sembra più una condanna).
A me sembra in realtà che oggi la Chiesa abbia paura del confronto, o accetti il dialogo solo con atei di sua elezione. Lo conferma del resto l’editoriale del suo giornale che contrappone alla mia laicità «datata» e insopportabile quella evidentemente più gradita degli Agamben e degli Scalfari.
Paolo Flores d’Arcais
Sono contento, caro direttore Flores, che lei mi ringrazi dell’interesse critico di "Avvenire" per l’agile volumetto con cui intima il "contenimento" di Dio nelle coscienze e nelle sagrestie in vista della sua inappellabile "espulsione" dall’orizzonte della democrazia e, dunque, del vivere civile. Vedo, poi, che molto a suo modo si rende conto che quell’ingombrante Clandestino ci è molto caro, e che l’imperdonabile e irrazionale "reato" di ingresso nella Città dell’Uomo che lei Gli imputa e imputa a chi Lo accoglie è, invece, per noi incontro decisivo, luce che rischiara, amore che – qui e ora – diventa fonte di umano e mai solitario impegno nelle opere e nei giorni. E questo non semplicemente «perché sì». Lei argomenta che ognuno si appartiene e ognuno decide per sé. Io che ognuno è unico e originale ma che nessuno è solo, che noi siamo le nostre relazioni. A cominciare dalla relazione che ci genera e prima ancora, per chi crede, dalla relazione con Dio (e pretendere di amputare questa verità relazionale è amputare l’uomo). Lei argomenta che è morale e civile uccidere una persona consenziente. Io che uccidere è incivile e immorale comunque. E constato che ciò che la ragione può anche spiegare e spiegarsi (un’uccisione accidentale, un’esecuzione capitale, un suicidio…) il cuore e la coscienza non riescono a sopportare. Pensiamo. E non mi stupisce e non mi scandalizza che la pensiamo diversamente. E neanche mi stupisce constatare che la sua dichiarata, iniziale gratitudine si faccia subito lezioncina (quasi un bignamino del suo «libriccino» e mi scuserà, dunque, per qualche rispettoso tagliettino...). Mi sorprende piuttosto qualche non marginale dettaglio. Il primo è che, curiosamente, nella sua lunga lettera lei non trovi un quarto di riga per menzionare Roberto Timossi, il nostro valente collaboratore (e suo collega di speculazioni filosofiche) che così efficacemente ha saputo interpellarla. Il secondo che si azzardi a stilare una sommaria anagrafe degli scienziati espellendo di fatto i credenti assieme a Dio (che tanti non portano, ma trovano in laboratorio…). A questo punto, però, devo anche confessarle di non riuscire proprio a capire perché ritenga di dover aggiungere il mio povero scalpo alla lunga serie che sostiene di aver inanellato: che cosa c’entra un semplice cronista come me con lei, illustre polemista, che elegantemente ci autocertifica di aver addirittura costretto ad «arrampicarsi sugli specchi» uomini di Dio e intellettuali della statura di Joseph Ratzinger, Angelo Scola, Julián Herranz, Dionigi Tettamanzi, Carlo Caffarra, Silvano Piovanelli? Domine, non sum dignus… E non lo dico per modo di dire, o per indisponibilità al dialogo anche con lei, bensì – come direbbe il mio concittadino san Francesco – per la «riverenza» che sento per coloro che lei così poco stima (e che non mi risultano affatto abbattuti dai colpi di maglio della sua atea logica). Per il resto, sappia che non siamo di quelli che stilano la "hit parade" degli interlocutori laici e, persino, laicisti. Ascoltiamo tutti e parliamo con tutti, ma annotiamo – di volta in volta – chi a questa relazione feconda si accosta con la stessa voglia di ascoltare. E di non escludere. Poi, si sa, i ragionamenti buoni e cattivi – proprio come gli alberi – si riconoscono dai frutti. 
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