lunedì 17 giugno 2013
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Qando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, Tns-sofres). Il 68% dei francesi, ad esempio, dice che tra il 2008 e il 2012 la qualità della propria vita lavorativa è degradata. Una percentuale che arriva al 75% per i lavoratori compresi tra i 35 e i 49 anni. C’è, infatti, una sofferenza tipica dei lavoratori di mezza età, quelli che non sono né all’inizio né alla fine della carriera. Le motivazioni nel lavoro crescono con noi. Quando si inizia un lavoro, soprattutto da giovani, le motivazioni sono in genere forti. Dopo venti anni che si lavora nella stessa organizzazione, magari nello stesso ufficio, quelle prime motivazioni tendono a perdere forza, e all’entusiasmo dei primi anni subentrano stanchezza e non di rado cinismo, se non si è capaci di trovare nuove motivazioni, magari più profonde e alte delle prime, certamente diverse. Ciò è vero – lo dicono quegli stessi dati – soprattutto per i dipendenti pubblici e per gli impiegati di medio livello. Basta guardarsi attorno, o dentro, per vedere quanta insoddisfazione c’è nei nostri luoghi di lavoro, soprattutto nelle persone di mezz’età. Non a caso gli studi sulla felicità mostrano un andamento a "U" in rapporto all’età: il minimo di felicità si raggiunge attorno ai 45 anni – poi la felicità riprende a risalire, se si hanno salute e buone relazioni. Ciò che è certo è che abbiamo costruito organizzazioni e regole di governo che ignorano, o trascurano troppo, le diverse età della vita, dimenticando che tra Maria lavoratrice ventenne e Maria sessantenne c’è poco in comune. Noi cresciamo, evolviamo, ma la nostra impresa non cresce e non cambia con noi e come noi. Ecco allora che nel "mezzo del cammin" ci ritroviamo spesso in crisi profonde, che vanno ben oltre la sola dimensione professionale – il lavoro è vita. Il mondo dell’impresa investe troppo poco nella cura delle relazioni umane. Anzi, la cultura relazionale interna alle imprese, private e pubbliche, è troppo spesso basata sulla sfiducia e su un pessimismo antropologico che ci ha convinti che la gente lavora solo quando è controllata o incentivata. Così troppa gente sta male a lavoro – quando daremo vita a un indicatore nazionale di benessere e malessere lavorativo? –, e spendiamo sempre più tempo e denaro in ricerca di benessere, spesso illusorio, fuori dal lavoro (wellness, spa...), in fuga dal malessere lavorativo. È questo un umanesimo saggio e sostenibile? Non sarebbe socialmente più intelligente aumentare il benessere, e quindi la qualità delle relazioni, mentre si lavora?In questo cambiamento di paradigma potrebbero venirci incontro, ad esempio, la storia e la cultura delle istituzioni carismatiche che sono, guarda caso, le istituzioni più longeve dell’Occidente – la vita media di una abbazia benedettina europea è di circa cinque secoli. La loro durata dipende anche da regole di governance, che ne hanno consentito, e ne consentono, la lunga e buona vita. Ci sono alcuni strumenti di tali comunità carismatiche che dovrebbero essere imitati, con opportune mediazioni, anche dalle imprese, poiché hanno una portata antropologica universale. Prendiamo, per un esempio, la pratica del colloquio periodico tra ogni membro della comunità e il proprio diretto responsabile, strumento cruciale per la cura relazionale di quelle comunità. Ci sono molte imprese dove i dipendenti vanno in pensione senza aver mai avuto un vero colloquio personale con il proprio dirigente. Conosco, invece, alcune imprese e cooperative dove tali pratiche esistono, sebbene siano ancora rare e saltuarie. Il colloquio lavoratore/responsabile – che non va confuso con il coaching, molto di moda – ha invece un’importanza cruciale, soprattutto oggi. Ci sono molti benefici, individuali e organizzativi, che produrrebbe la pratica sistematica del colloquio (due volte l’anno?). Innanzitutto, il colloquio crea uno spazio idoneo nel quale esprimere le proteste, le sofferenze, i dissensi, i disagi. Se mancano questi spazi si generano fiumi di chiacchiere,di pettegolezzi, debiti e crediti psicologici, che alimentano divisioni e possono diventare dei propri e veri cancri organizzativi. Le mormorazioni di biblica memoria non sono sempre e soltanto frutto di persone maldicenti e pettegole; possono anche essere il prodotto di una istituzione che non prevede nessun strumento per orientare costruttivamente le proteste, le critiche e i disagi delle persone, e anche per ringraziare, atto fondamentale in ogni comunità, anche lavorativa. Ci sono responsabili e manager che pensavano di aver ringraziato un lavoratore perché gli avevano inviato un «grazie» o un «bravo» incrociandolo lungo le scale, magari parlando al telefonino. Parole come «grazie», «scusa», «bravo» sono preziose solo se usate con parsimonia. Infine, la pratica del colloquio aumenta quella philia necessaria a ogni organizzazione, perché, se ben fatto, il colloquio non è uno strumento della gerarchia ma della fraternità – entrambi parliamo e ascoltiamo, doniamo e riceviamo. E non raramente anche un lavoratore può aiutare un responsabile a vedersi con l’occhio dei suoi dipendenti, un dono immenso quando lo si riceve, e lo si sa e vuol ricevere. L’errore più grave che può fare un responsabile durante un colloquio è respingere le critiche, oppure dare risposte sbrigative («ma non hai capito …», «ti mancano elementi …», «ti spiego …»). L’efficacia di un colloquio non sta tanto nelle risposte che si ottengono, ma nella possibilità di esprimere un disagio, una critica, e trovare nell’altro qualcuno che le sa accogliere, e che sa ascoltare – quanto dovremmo investire nell’arte dell’ascolto vero! Uno dei compiti più importanti di un responsabile è accogliere le critiche: incassarle, elaborarle, e mai rinviarle al mittente. Il diritto allo sfogo è un diritto del lavoratore. E l’ascolto dello sfogo è un dovere dei manager. Per questo occorrono i luoghi e i momenti, investimenti in tempo e adeguata preparazione, anche etica, in entrambe le parti. Non è certo facile fare un buon colloquio: ma ci si può impegnare, esercitarsi, imparare dagli errori – i frutti sono copiosi.Infine, ci sono due colloqui particolarmente importanti per un lavoratore: il primo e l’ultimo. Il primo dovrebbe essere quello nel quale al neo-assunto si dona la tradizione dell’impresa, la storia dei suoi fondatori, comprese le passioni umane, e a volte gli ideali, che l’hanno generata. E dove si ascoltano le aspirazioni e le passioni del nuovo lavoratore, e magari lo si presenta a tutta la comunità aziendale in un momento di festa. Non meno decisivo è l’ultimo colloquio quando si lascia un lavoro in cui si sono trascorsi gli anni migliori della vita. Un «grazie» o uno «scusami» detti in quell’ultimo "incontro" possono dar senso e qualità spirituale a un momento di passaggio tra i più delicati dell’esistenza. Imitiamo i carismi, maestri di umanità, se vogliamo aumentare la qualità delle relazioni nelle nostre organizzazioni. Ce n’è un urgente bisogno.​​​​
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