martedì 17 settembre 2013
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Parole inattese e infinitamente desiderate, incredibili e semplicissime, e ogni volta è così quando papa Francesco ci dice le cose di Dio e ce le mette davanti al cuore, e ogni volta qualcosa ci tocca in profondo, uno stupore, una commozione, una voglia di bene, una speranza che il bene è possibile, che il bene è per noi. Come un’acqua che penetra nei nostri interiori labirinti, con dolcezza, a lenire le arsure dell’anima.Ma quello che ha detto ieri mattina il Papa a Santa Marta, parlando di governanti e di politica e di impegno dei cristiani ci dà un’emozione ancora diversa, perché tocca un tema "sensibile" di per sé incandescente, e soprattutto perché capovolge l’orizzonte nel quale la storia ha curvato il pensiero politico degli uomini e il loro agire. E le loro violenze. E le discordie, le lotte, le alterne spoliazioni, persin teorizzate, l’ostilità, l’idolatria del potere, il dominio come traguardo. Questo noi sappiamo bene, e ancora le cronache del mondo ci incupiscono, quando passiamo in rassegna i "potenti della terra", i reggitori di popoli, piccoli e grandi.Il Papa di questo non dice, lo sa come noi lo sappiamo, ma disegna subito invece l’immagine diritta dell’uomo che deve governare, quasi svuotando con la prodigiosa semplicità del Vangelo gli arcana imperii della politica e dei suoi manuali astuti o violenti, che intrecciano i fili sul rovescio della tela. «Chi governa deve amare il suo popolo». È la rivoluzione che mai avremmo pensato, stretti da un doppio sussulto per la debolezza d’una ricetta d’amore rispetto allo staffile classico di odio e paura, o all’inverso per la disperazione che il potere sia capace d’amore. E invece Francesco dice proprio così: un governante che non ama, non può governare: al massimo potrà disciplinare, mettere un po’ di ordine, ma non governare. E prosegue con la stessa dolcezza, pacata e inflessibile, ad affiancare all’amore l’umiltà, così da sentire «tutti gli altri, le diverse opinioni, per scegliere la migliore strada».Il Papa parla al mondo, a tutto il mondo. Ma chi lo ascolta, è inevitabile che faccia i conti di casa sua. E noi, di conti di casa nostra ne abbiamo una montagna. E le nostre emozioni sono spesso e lungamente di pena e di rabbia e di rivolta e di disprezzo e di scherno, e sotto sotto di pessimismo deluso. Con quale inverso coraggio si può andare nelle piazze insozzate da mille incrociate contumelie, e parlare d’amore come nostra attesa? In piazza comunque ci andremo, nella piazza intesa come "agorà", come luogo dove si discute, ci si incontra, si progetta il comune futuro, «si fa politica» restituendo alla parola la sua dignità. Lo faremo da cristiani, perché come dice papa Francesco un buon cristiano «si immischia», deve fare il meglio che può perché vi sia un buon governo. Ma anche su questo versante è rivoluzione: il "meglio" si chiama <+corsivo>preghiera<+tondo>. Il meglio passa dal cielo prima di ripiovere sulla nostra pochezza e rianimarci. Sì, è dal Dio della vita, senza il quale nessuna potestà può consistere nel bene, che il popolo invoca per i suoi governanti – tutti, e soprattutto per chi più ne ha bisogno – rettitudine e conversione. E anche questo, semplice come l’altro, e come l’altro negletto, è un amore. È un miraggio o un miracolo un cerchio politico intrecciato così? Per chi ha fede, la preghiera può darcene miglior speranza che il disprezzo e il disamore.
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