martedì 25 agosto 2015
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Il quartiere popolare messicano di Fundo Legal non è lontano dal recinto di quattro metri che separa Nogales, Sonora, Messico, da Nogales, Arizona. Poche strade polverose con alcune decine di case aggrappate miracolosamente a un pendio roccioso. Da decenni gli 'indocumentados' – uomini, donne e bambini – passano di qui. Un tempo bussavano alle porte per chiedere alle famiglie cibo e acqua prima di sparire sulle colline e nei calanchi che, nei loro sogni, conducono all’eldorado americano. Oggi, nessuno osa aprire loro la porta. C’è troppa paura per essere caritatevoli. Da tanti anni si muore nel tentativo di attraversare il deserto di Sonora verso il confine americano. Ma i numeri di oggi sono spaventosi. Lo scorso luglio 59 corpi sono stati trovati fra le rocce e i cactus, uccisi dall’esposizione al calore e dallo sfinimento. Padre Sean Carroll, un giovane alto e magro che ha fatto la sua professione di fede perpetua come gesuita nel 2000, si trova sul lato messicano quando scorge tre furgoni delle guardie frontaliere americane che svuotano il loro carico umano. Una trentina di persone ne escono e attraversano un cancello, finendo racchiuse in un semicerchio di agenti messicani in uniformi nere e arancioni che li fanno salire su un vecchio scuolabus. Padre Sean li segue con la sua auto attraverso il centro di Nogales, passando davanti a ristoranti vuoti e negozi chiusi. «Un tempo questa era una località turistica, ma gli americani che spendevano qui i loro soldi se ne sono andati – racconta mentre guida –. Oggi si vedono solo soldati messicani pesantemente armati e auto della polizia parcheggiate lungo la strada principale. Sono tutti tesi, perché i trafficanti di droga non hanno paura di dimostrare chi è davvero in controllo della città». Il bus arriva a un capannone a cielo aperto collegato a un minuscolo ufficio che si occupa della registrazione dei deportati. Gli uomini e le donne si siedono su panche di legno. Hanno le spalle curve, i vestiti strappati e polverosi. Una bambina poggia la testa sul seno della madre. Padre Carroll conosce tutti gli agenti, che lo accolgono con un «buenos dìas, padre!» e una stretta di mano. Si avvicina ai deportati, parla con alcuni di loro, chiedendo nomi, da dove vengono, dove stavano cercando di andare quando sono stati presi. Poi li avverte di non abbassare la guardia, di non fidarsi di nessuno perché le bande messicane possono ancora rapirli e chiedere un riscatto alle loro famiglie. «La loro odissea non è finita. Ci sono persone sul lato messicano che li considerano prede. Li possono rapire, rinchiudere in un motel e chiedere 3000 dollari, a volte 5000. Succede a migliaia di loro ogni anno, e cerchiamo di prepararli perché non ci sia un altro massacro di San Fernando». Quando, pochi mesi dopo l’arrivo di padre Sean a Nogales, 72 migranti furono rapiti dal cartello Los Zetas e uccisi perché si erano rifiutati di pagare il riscatto.

Padre Carroll nel «comedor» per i migranti
«C'è un posto per mangiare?» chiede un uomo del gruppo. Padre Carroll si alza e dice a tutti, in spagnolo, che una volta finite le pratiche potranno raggiungerlo alla mensa della Kino Border Initiative, un gruppo bi-nazionale finanziato dalle Diocesi di Tucson e di Hermosillo, dalle Missionarie dell’Eucaristia e dalla società di Gesù americana e messicana, dove possono essere sfamate 200 persone, tre volte al giorno. Padre Sean ha fondato il centro nel 2009, e l’ha fatto crescere insieme a padre Peter Neely, un altro gesuita, alcune suore missionarie e a volontari. Oggi oltre alla mensa c’è un rifugio per donne sole o con bambini piccoli e una piccola clinica, e lo scorso anno nella piccola casa sul confine con il tetto di lamiera sono stati serviti 38.667 pasti. I migranti intanto stanno subendo un altro processo burocratico e senz’anima che prenderà almeno un’ora. Padre Sean se ne va, lasciando a tutti l’indirizzo del comedor. Più tardi, molti degli stessi migranti vi entrano in fila indiana, alcuni con gli occhi a terra, altri guardando le pentole da dove si leva un profumo di fagioli fritti, uova strapazzate, zuppa.   Padre Sean, camicia azzurra a maniche corte, pantaloni beige, taglio cortissimo da marine, svetta sopra tutte le teste vicino all’entrata: «Tijuana, Mexicali, Juarez: molte città di confine offrono questo tipi di servizi, ma fino a poco tempo fa non c’era nulla del genere a Nogales. Poi hanno aumentato i controlli ai punti di valico più facili e da allora sempre più persone tentano la traversata del deserto. Offriamo un pasto, acqua, vestiti, cure mediche, senza fare domande. La maggior parte sono deportati che hanno bisogno di rifocillarsi prima di avviarsi verso sud per tornare a casa, che spesso è in Centro America. Ma alcuni sono appena arrivati dal sud e stanno per avventurarsi nel deserto. C’è un grande bisogno». Un paio di donne hanno bambini piccoli al seguito, gli uomini indossano berretti di lana e felpe con il cappuccio sbiadite. Pochi parlano. «Attraversare il confine illegalmente non è un peccato, è un reato minore, ma la pena per molti è la morte. Arrivano da noi dopo un viaggio massacrante e dopo aver subito rapine, violenza e umiliazioni. Sono in cerca di aiuto materiale. Ma hanno anche un altro bisogno di cui non mi ero accorto subito, quando ho cominciato a lavorare al comedor, ed è il rispetto». Padre Carroll sorride alle persone in fila. «Non ti guardano negli occhi. Non sorridono. È un atteggiamento che rivela la separazione familiare che stanno vivendo, o il tempo passato come detenuti in un centro di smistamento americano. Così, quando vengono qui, sono i benvenuti. La loro dignità umana è stata violata in molti modi. Fa parte del nostro lavoro risollevare e proteggere la persona». «Amigo!» Padre Sean, saluta ogni migrante con una stretta di mano. «Bienvenido!». Lo spagnolo padre Carroll l’ha imparato per strada, un po’ nel sud della California, dove è cresciuto e ha preso una laurea all’università di Standford, e un po’ qui. Del lontano, verdeggiante Massachusets, dove è nato, gli resta solo l’accento.   «All’università ho cominciato a sentire la chiamata di Dio. Ma per un anno e mezzo ho lottato contro la vocazione. Un giorno ero seduto nella chiesa dei miei genitori riflettendo su Gesù risorto e ho sentito che mi stava chiedendo: ti fidi di me?» I migranti riempiono i tavoli in legno che si allungano nella mensa. I volontari cominciano a servirli. «Il nostro lavoro è basato sui Vangeli – continua padre Sean mentre passa piatti e scodelle –. Ma è anche politico. Non nel senso che siamo democratici o repubblicani. Ma nel senso che cerchiamo di creare condizioni migliori per la vera vita umana». I volontari distribuiscono anche sacchetti di plastica pieni di articoli per l’igiene personale. In un angolo della stanza una donna del Comitato internazionale della Croce Rossa amministra vaccinazioni. Altri migranti si riuniscono attorno a un volontario di No more deaths, un gruppo non profit di aiuto ai migranti dell’Arizona. «Ciò che mi aiuta è un profondo senso che Dio vuole che siamo qui. Me lo ha mostrato tante volte. Pochi mesi dopo il mio arrivo, una donna è venuta a noi, avevamo solo una tenda. Era stata arrestata nel deserto e stava per partorire. Le sorelle l’hanno ricevuta. Ha dato alla luce il giorno di Natale». Circa un’ora dopo il loro arrivo, gli ospiti del comedor cominciano ad andarsene. «Quando escono, hanno un aspetto diverso – dice padre Sean, salutandoli –. Si alzano in piedi un po più dritti. Mi stringono la mano. E mi guardano negli occhi».
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