mercoledì 18 novembre 2015
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​Tra tutte le immagini e le testimonianze della notte del terrore di Parigi ce ne sono alcune che hanno un particolare valore. Sono le immagini e le parole di coloro che hanno aperto le loro case per accogliere quanti fuggivano nelle strade dagli attentati. Per alcuni è stata una reazione immediata, la buona istintività empatica di chi vede un altro essere umano nel bisogno e si offre di aiutarlo. Lo stesso hanno fatto i gestori di negozi e ristoranti. Altri cittadini, come i lettori di "Avvenire" hanno appreso sin dal titolo di prima pagina di domenica scorsa, hanno utilizzato twitter e l’hashtag #PorteOuverte per creare rapidamente una rete che offrisse rifugio e ospitalità a quanti non potevano rientrare a casa.Queste immagini e queste testimonianze non parlavano solo di paura, disperazione e smarrimento, ma recavano un segno diverso e contenevano già una risposta positiva: la disponibilità ad accogliere in casa propria degli "sconosciuti" solo perché bisognosi di aiuto. Giustamente si può osservare che tutto ciò sembra un fragile argine di fronte all’entità della tragedia, al gran numero di morti e i feriti, al senso di radicale impotenza che ci prende di fronte a eventi come questo. Una fragile diga psicologica che ci spinge a mettere in luce quel "poco" di bene di fronte a un male e una violenza che sembrano soverchianti e vincenti. In realtà non è così, perché l’azione di quelle persone contiene in sé, come un nucleo prezioso che va messo in piena luce, la più significativa risposta "culturale" alla violenza terroristica. Sebbene sotto la pressione, l’emozione e l’urgenza del momento, queste persone invece di chiudersi in casa per salvare se stesse hanno aperto le loro case per dare rifugio e salvare altri. La più radicale risposta culturale al terrorismo è dunque l’ospitalità e la solidarietà.Il significato di questi attentati per chi li compie, è dare una spallata, la più traumatica e spettacolare possibile, che acceleri i processi di implosione interna delle società sotto attacco. In particolare, chi disprezza e aggredisce la società occidentale – ancor più quando è nato e cresciuto al suo interno, come è per la maggior parte degli attentatori – lo fa nella convinzione che la società occidentale sia già agonizzante perché affetta da un radicale individualismo in cui ognuno pensa solo a sé e perché caratterizzata da valori deboli, di corto respiro, reversibili, contingenti, per i quali nessuno è disposto a sacrificarsi fino in fondo. Una società, in cui l’unico valore, in fin dei conti, è proteggere il proprio "io minimo", per usare un’espressione del sociologo Christopher Lasch, un "io" sulla difensiva, unicamente preoccupato di sé, impegnato a definire e tutelare il proprio mondo di piccole sicurezze e certezze. Un cancro che affligge la società occidentale e che, dopo le inevitabili manifestazioni e dichiarazioni retoriche dai pulpiti della politica e nei media, tornerà a corrodere dall’interno le nostre società. E che, prima o poi, di questo passo, le porterà inesorabilmente alla dissoluzione. Qualche commentatore ha osservato che la questione "culturale" fondamentale che può "risolvere" alla radice il problema del terrorismo islamico è che l’islam faccia i conti fino in fondo e senza infingimenti con la modernità, come già è accaduto per il cristianesimo al tempo dell’illuminismo, operando la differenziazione tra religione, società e politica. Ma una questione "culturale" non meno importante è quella che riguarda il mondo, la cultura e gli stili di vita della nostra società. Di fronte alla prospettiva che il mondo occidentali crolli per implosione perché ormai privo di ogni reale energia interna, la risposta culturale più efficace è quella data dalle persone che hanno ospitato i passanti in fuga. Ma a una precisa condizione: che ospitalità e solidarietà non siano solo una risposta immediata a un evento che ci colpisce emotivamente, ma diventino un habitus, un orientamento di vita, un modo di concepire stabilmente le relazioni tra gli uomini. A patto cioè, per usare le parole di papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, che ospitalità e solidarietà tornino a essere, o diventino, un tratto permanente e sempre più forte della "ecologia umana" e sociale delle nostre città e dei nostri paesi, una dimensione costitutiva delle relazioni sociali. Perché la «disumanità», di cui ha parlato il Papa nel suo primo commento ai fatti di Parigi, e da cui nessuno è mai del tutto preservato, si combatte alla radice moltiplicando gesti e spazi di "umanità" nelle relazioni interpersonali come nelle strutture sociali.
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