Israele-Palestina, ora fermare la tempesta
venerdì 15 dicembre 2023

Impossibile non riandare al vecchio adagio che recita “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Per quanto logora, questa frase sembra attagliarsi drammaticamente alle terribili vicende che scuotono Israele e Palestina da più di due mesi. Ha già raccolto tempesta il gruppo dirigente di Hamas, che sta facendo pagare prezzi indicibili al popolo palestinese dopo il suo criminale massacro del 7 ottobre scorso.

La strage di civili israeliani innocenti ha causato la durissima reazione dello Stato ebraico, con le immani distruzioni e l’uccisione – e il conto aumenta ogni giorno – di quasi ventimila persone, in maggioranza bambini e donne. La ferocia e il cinismo di quel movimento terrorista sono noti, così come la disponibilità dei suoi membri a offrire la propria vita per raggiungere gli obiettivi prefissi. Ma oggi, chi paga con la propria vita sono per lo più civili indifesi, bambini, mamme, anziani che non possono ricevere cure. Mentre l’unico obiettivo raggiunto sembra essere quello di aver aizzato l’odio degli israeliani contro l’intero popolo palestinese e reso ancora più improbabile il sogno di uno Stato palestinese vero e indipendente.

Ma bisogna chiedersi anche cosa spera di raccogliere il governo di Bibi Netanyahu dai semi di sangue che sta gettando. Perfino gli Stati Uniti, da sempre l’alleato che tutto concedeva e che sempre avallava le decisioni di Israele, mostra l’insofferenza e la propria irritazione dinanzi alle stragi di civili compiute dalle forze armate di quel Paese.

A soccombere è un intero popolo per le colpe di Hamas. La brutalità con cui gli israeliani conducono la campagna contro questo movimento riuscirà forse ad annichilirne temporaneamente le capacità; di sicuro però, produrrà anche una nuova generazione di attentatori suicidi, pescati fra le migliaia dei bambini di oggi resi orfani, che hanno perso tutto, casa, famiglia e speranza nel futuro. I partiti di destra e ultra-destra al potere oggi sembrano aver perso ogni freno inibitore: parlano apertamente di deportazioni di massa, rinnegano gli accordi di pace del 1993, fomentano la violenza criminale di gruppi di coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania. Cosa produrrà questa scelta sbagliata di Israele? Già oggi vediamo svanire la solidarietà e il sostegno che quel Paese aveva ricevuto dopo la ferita del 7 ottobre e il crescente imbarazzo europeo e statunitense, soprattutto dinanzi alle violenze crescenti dei coloni. E anzi, in Occidente si moltiplicano gli inquietanti segnali di un ritorno dell’antisemitismo. Una vergogna che non ha giustificazioni, ma che si nutre di queste violenze.

Questo conflitto che Israele non vuole fermare, a dispetto delle richieste internazionali, rischia sempre più di infettare con il suo allargamento tutta la regione. Le milizie sciite Houthi dallo Yemen conducono attacchi missilistici e contro il traffico navale verso il canale di Suez. Sarebbe troppo semplice depotenziare le loro azioni, considerandole come un semplice ordine ricevuto da Teheran. In realtà, essi rispondono alla crescente rabbia delle popolazioni arabe, nonostante la moderazione dei loro governi: non a caso, gli Houthi sono sempre più popolari anche nei Paesi che li stanno combattendo da molti anni. E questo è solo un esempio delle milizie che si possono mobilitare. La sete di vendetta per la strage subita a ottobre, si mischia poi al calcolo cinico del primo ministro Netanyahu, che sa bene come la sua leadership verrebbe messa in discussione non appena fermate le armi. Egli ha scelto di proseguire il conflitto e di solleticare gli umori peggiori della destra israeliana.

Ma questo non è più tollerabile. Bisogna che la comunità dica basta alla guerra e alle stragi quotidiane con maggiore decisione. Le armi devono tacere. Ora, non fra settimane o mesi. E questo non per salvare i terroristi criminali di Hamas, ma per salvare due popoli: i palestinesi di Gaza dalla morte sotto le bombe o per fame o per mancanza di cure; gli israeliani dagli loro stessi eccessi, che rischiano di far perdere alla democrazia israeliana molti dei suoi valori fondativi.

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