mercoledì 15 giugno 2011
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Le flebili voci che si sono alzate dalla co­munità internazionale per condannare la sanguinosa repressione della primavera siria­na, in atto da tredici settimane, hanno regi­strato un insolito e improvviso acuto. A emet­terlo è stato il premier turco Erdogan che ha parlato di «atrocità inumane» compiute dal re­gime di Bashar Assad, il dittatore di Damasco fino a ieri considerato un amico dal governo di Ankara. Il repentino cambio di giudizio de­riva dal fatto che i disordini in Siria stanno spingendo in Turchia migliaia di profughi, fa­cendo temere un’emergenza umanitaria co­me quella che si realizzò nel 1991, alla fine del­la prima guerra contro l’Iraq. La crisi siriana s’aggrava e assume inevitabil­mente una dimensione internazionale. Il pu­gno di ferro di Assad non è riuscito a schiac­ciare le proteste popolari che si stanno diffon­dendo in tutto il Paese, nonostante l’altissimo tributo di sangue pagato dai rivoltosi. Il regi­me di Damasco non ha esitato a schierare i carri armati e a far alzare gli elicotteri da com­battimento contro la popolazione. Le testi­monianze dei fuggiaschi sono racconti del-­l’orrore, denunciano massacri e stermini, di­struzioni di case e di poderi, spietate esecu­zioni a sangue freddo dei soldati che si rifiu­tano di sparare sui loro connazionali. Negli ul­timi giorni la protesta, quasi sempre pacifica, si è trasformata in ribellione armata. La situazione resta molto confusa e le notizie sono difficilmente verificabili, data l’assenza di giornalisti stranieri e di operatori umanita­ri nella Siria chiusa ermeticamente da una dit­tatura araba di tipo sovietico. Ed anche i con­torni della protesta restano tutti da definire. Ad alimentare la ribellione ci sono indubbia­mente pacifici cittadini, intellettuali e gruppi d’opposizione nati sul web, le cui richieste so­no libertà e democrazia. A dare mano forte c’è poi la gran massa dei sunniti, maggioranza senza potere. Infine ci sono i movimenti inte­gralisti come i Fratelli Musulmani e gli infil­trati dell’Arabia Saudita che mirano a sosti­tuire la minoranza alawita al potere con un’al­tra dittatura, non più laica bensì islamista. Re­stano in disparte le comunità dei drusi e dei cristiani (il 10 % della popolazione) che pa­ventano per la Siria la stessa sorte subìta dal-­l’Iraq, dove la caduta di Saddam spalancò le porte all’inferno della guerra civile e delle per­secuzioni nei confronti delle minoranze etni­che e religiose. Resta il fatto che Assad, a dispetto della sua bella presenza e della sua educazione londi­nese, si sta rivelando un dittatore non meno sanguinario di Gheddafi contro cui la Nato ha scatenato una guerra che voleva essere 'uma­nitaria', a difesa della popolazione civile, ed è invece diventata una serie di bombardamen­ti allo scopo di eliminare il tiranno, anche a prezzo di vittime innocenti. Il groviglio siria­no imbarazza l’Occidente, costretto ad am­mettere di usare due pesi e due misure. Ma tra la decisione di bombardare un Paese e quella di non fare assolutamente nulla c’è spazio per soluzioni più sagge. Gli inviti rivolti ad Assad perché fermi la re­pressione potranno avere qualche efficacia so­lo se accompagnati da dure sanzioni che però l’Onu non è in grado di varare, data l’opposi­zione di Russia e Cina. Al momento quel che può davvero impensierire il dittatore siriano è la minaccia, lanciata dalla Turchia, di un in­tervento armato per creare una zona cusci­netto ai confini tra i due Paesi ed evitare così l’emergenza profughi. C’è da sperare che la minaccia funzioni come deterrente. Se invece dovesse realizzarsi, aprirebbe scenari del tut­to nuovi e destabilizzanti per l’intera regione mediorientale. È su questo sottile crinale che si gioca il futuro della primavera siriana.
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