venerdì 1 novembre 2013
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​Emergenza lavoro: un grido di allarme, urlato con sempre minor forza e convinzione. Un ritornello obbligato nelle parole di politici, sindacalisti, esperti. Un dramma reale, per i tanti che hanno perso il lavoro e non vedono opportunità concrete all’orizzonte. Solo una serie di porte chiuse, quelle delle imprese che hanno sospeso le loro attività, se ancora non sono fallite. E, dietro le porte, gli sguardi, vuoti e rassegnati, di chi ha smesso di credere non solo nella politica e nelle istituzioni, ma anche in se stesso. I nostri giovani, su tutti. Sono loro i più penalizzati da una crisi che pare non aver fine e che pone sullo stesso piano, in una alleanza senza strategie, imprenditori oramai allo stremo e i loro collaboratori senza un futuro certo.

È da oltre cinque anni che, impotenti, registriamo un inarrestabile incremento dei tassi di disoccupazione. Ma ancor di più spaventa l’inattività e cioè l’assenza di lavoro unita alla mancanza di una motivazione o speranza di trovarlo. Un esercito di invisibili che non conta più neppure per le statistiche. Ogni giorno decine di aziende che chiudono e, con esse, migliaia di posti di lavoro faticosamente conquistati che, in pochi istanti, svaniscono. Un brusco passo indietro di quasi quarant’anni, ai tempi della crisi petrolifera di inizio anni Settanta, con milioni di posti di lavoro bruciati. Sessanta milioni di italiani e solo ventidue milioni di lavoratori: una forza–lavoro che progressivamente si assottiglia e che, da sola, non pare più in grado di reggere, in termini di produttività e contributi alle casse pubbliche, le sorti del nostro Paese. Un brutto incubo che rende sbiadita e anche fuori luogo la polemica dell’ultimo decennio sulla precarietà del lavoro. Finalmente si capisce la battaglia della legge Biagi – una battaglia iniziata esattamente dieci anni fa – nella convinzione che un lavoro, ancorché temporaneo, è meglio del nulla. Quel nulla che è l’opposto della inclusione e che è così forte da annientare sogni, ideali e bisogni materiali di una intera generazione, quella dei giovani inattivi a cui oggi è concesso di aspirare, al più, a un tirocinio sottopagato per qualche mese.

Lasciamo alla politica, e agli esperti che la indirizzano e consigliano, il compito di indicare ricette e soluzioni possibilmente realistiche. Ma già sappiamo che un punto centrale per l’occupazione giovanile è il disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro, a causa di percorsi formativi troppo teorici e lontani dai fabbisogni professionali delle imprese. Ci vorranno tuttavia anni, almeno un decennio, per costruire un sistema integrato tra scuola e lavoro. E ciò sarà possibile solo se sapremo davvero rilanciare l’apprendistato, non a colpi di spot e annunci, ma come strumento di programmazione dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.

Soluzioni calate dall’alto potranno fare poco, quantomeno nel breve periodo. Leggi e riforme richiedono tempo e, come insegna la legge Fornero, non sempre i buoni propositi si traducono in reali miglioramenti del mercato del lavoro. Molto più forte e concreto è, piuttosto, il richiamo alle nostre responsabilità individuali nei ruoli che ciascuno di noi ricopre nella società. A partire dalla funzione e responsabilità di genitori e, conseguentemente, di educatori chiamati a dare messaggi positivi ai nostri ragazzi. Dobbiamo tornare a stare loro vicino, ascoltandoli e aiutandoli a trovare la giusta strada. Che certo non è facile, ma che è ancora più difficile senza un compagno di viaggio che dia sostegno, orientamento e sicurezza nei momenti difficili. I giovani sono i più penalizzati dalla crisi per tanti motivi, non da ultimo per una scarsa consapevolezza di sé, dei propri reali talenti e vocazioni e di quello che li aspetta una volta terminata la scuola.

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