giovedì 28 maggio 2015
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​Indagare sul “fattore umano” nell’ambito di una tragedia immane come fu la prima Guerra mondiale è forse l’operazione più seria e utile che si possa fare cent’anni dopo quell’immane carneficina. Sarebbe perciò sbagliato tentare di ridurre tale indagine, diciamo pure tale purificazione della memoria, a una equiparazione tra disertori ed eroi. E, per prima cosa, perché non tutti quelli che tra il maggio 1915 e il novembre 1918 caddero fucilati dai propri commilitoni per ordine dei propri superiori avevano disonorato o gettato alle ortiche l’uniforme, ma più di una volta erano solo poveretti ritenuti «poco coraggiosi» oppure addirittura malcapitati che, non (o non ancora) sottratti alla vita dai proiettili o dalle baionette nemiche, “vinsero” l’estrazione a sorte per un’assurda decimazione a titolo d’esempio.In alcuni casi la fucilazione fu immediata, senza lo straccio di un processo. Sono cose già scritte e già lette, proprio qui su Avvenire che per primo, a partire dagli studi e dalle battaglie culturali di illustri storici, ha segnalato alla politica e all’opinione pubblica l’esigenza di fare chiarezza anche su questa triste pagina di storia patria.«È arduo guardare agli eventi del passato con le lenti del presente», ha ammonito pochi giorni fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato a un importante convegno sull’argomento che si è tenuto a Rovereto. Figurarsi, quindi, (pre)giudicare con quelle stesse lenti perfino un ipotetico (e speriamo mai reale) domani in cui le nostre truppe dovessero battersi contro le milizie del jihadismo, come è stato scritto ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera. L’obiettivo era criticare la proposta di legge (Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la prima Guerra mondiale), approvata dalla Camera il 21 maggio e ora al vaglio del Senato, che prevede la riabilitazione di quei fucilati per mano “amica”. Ma riabilitare non significa, come si pretenderebbe, «stabilire che non c’è differenza morale e civile» tra chi cadde per la Bandiera e chi non ne ebbe il coraggio o l’occasione. E a liquidare la vicenda come il prodotto di «un generico pacifismo cristiano» si rischia di banalizzarla, oltre che di non coglierne la portata, ben più ampia.

 

Non si tratta, ha sottolineato lo stesso presidente Mattarella, di sminuire in alcun modo i «tanti atti di grande valore e di nobile eroismo compiuti dai soldati italiani», ma di «non lasciare in ombra alcune pagine tristi e poco conosciute di quegli anni di guerra». Ecco il valore in ballo: la conoscenza di sé e della propria storia, tutta intera, che ogni Paese dovrebbe avere. Vale da noi per il Fascismo e per la Resistenza, deve valere per la Grande Guerra. Non a caso anche altre Nazioni (Francia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Canada) hanno avvertito, più o meno di recente, la medesima esigenza. Non a caso un nutrito gruppo di intellettuali – ricordiamo tra gli altri Alberto Monticone e Luciano Canfora – ha firmato un appello in favore di questa grande opera di trasparenza nazionale e patriottica. Sì, patriottica, perché il testo di legge esclude esplicitamente (articolo 1, comma 4) «tutti coloro che vennero condannati alla pena capitale per aver volontariamente trasferito al nemico informazioni coperte dal segreto militare e pregiudizievoli per la sicurezza delle proprie unità di appartenenza e per il successo delle operazioni militari delle Forze armate italiane». Nessuna riabilitazione per i veri “traditori”, insomma. Per tutti gli altri ci sarà il «perdono» – che, in alcuni casi, potrà forse farsi anche atto di riparazione – della Repubblica e una targa di bronzo nel complesso del Vittoriano. Non è un trattamento da eroi, ma da vittime di guerra. Da vittime italiane. Sorprende che a un autorevole analista sia sfuggita la differenza.Le circostanze e i motivi di quel migliaio circa di fucilazioni sono al centro del lavoro di approfondimento condotto dal Comitato tecnico-scientifico insediato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e presieduto dal professore ed ex- ministro Arturo Parisi. Ai lavori dell’organismo sarà data «massima divulgazione» con il fine dichiarato di «promuovere una memoria condivisa del popolo italiano sulla prima Guerra mondiale». E la condivisione non è mai una resa, così come il perdono e la riparazione non sono mai una sconfitta.

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