sabato 17 agosto 2013
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C’è uno spazio tra la metropoli e i comprensori degli antichi paesi che sembra – e forse è – un territorio di nessuno. Non città, ma neppure campagna. Dossi, siepi e fossi e poi campi per lo più incolti e disabitati. Una tradizione della campagna romana e di ciò che adesso di quella, sia pure dal volto sfigurato, è rimasto.
Era attorno al tramonto della Trasfigurazione (lo stesso giorno e la stessa ora in cui nel 1978 Paolo VI lasciava la scena drammatica della storia); un momento anch’esso in sospensione tra la luce e la notte: il crepuscolo di un giorno di afa tra i campi. E io attraversavo in auto il silenzio di questa calura, godendo la pace di una sera come tante altre. Ma nella vita non è così. Nulla è scontato, neppure il paesaggio più abituale come può esserlo una strada secondaria tra le colline e i campi e, soprattutto, poco frequentata.
La sera del sei agosto quel paesaggio non era quello di sempre; il profilo di una decina di ragazzi accanto alle sagome di alcune auto lo cambiava. Dietro di loro una macchina della polizia municipale di Anguillara Sabazia con il lampeggiante acceso e un vigile che indicava di girare a destra. Rallentando ho visto i volti tristi dei ragazzi. Attoniti. Muti e sgomenti. Un incidente – mi ha detto un amico allevatore della zona – un incidente mortale.
Un ragazzo con la moto ha superato un camion e poi ha urtato un’auto che procedeva lentamente, troppo lentamente, nella stessa direzione. Imprevista (ma non imprevedibile) e così la moto e il giovane pilota non ce l’hanno fatta. I freni e il colpo di reni non sono bastati e la velocità ha fatto il resto. Sono sceso dall’auto e, dopo avere saputo sommariamente l’accaduto, ho ascoltato il silenzio di quei giovani e anche il pianto di un’amica dello sfortunato ragazzo, Lorenzo detto 'er Gianni'. Di padre pugliese e madre sarda ad Anguillara da tanti anni e ben conosciuti per la loro laboriosità. Integratissimi su un territorio che nell’ultimo quarto di secolo è profondamente mutato, non solo nel paesaggio largamente urbanizzato (spesso abusivamente), ma anche nel suo tessuto umano profondo; nelle relazioni sociali cambiate rispetto alle antiche tradizioni ormai scomparse e anche nelle gerarchie che si costituiscono con criteri differenti dalle vecchie logiche provenienti da epoche oramai remote.
Ed è strano però che per questo giovanissimo (22 anni) ghermito dalla morte nell’atto della corsa non si sia poi parlato più di tanto (come è in realtà) di una 'morte assurda'. Razionalmente è così. Ma non per tutti. Per tanti, infatti, la corsa sulla moto, non è un atto folle, ma semplicemente un modo di vivere nella simbiosi tra persona e mezzo. La moto, dicono i sociologi, non è altro che il prolungamento di un io cresciuto in un deserto senza altri riscontri.
È il sogno rispetto al grigiore dei giorni vissuti nell’alienazione delle 'terre di nessuno'. Nello smarrimento di una identità surrogata nell’incoscienza della corsa, nella sua pericolosa bellezza. In una vita che sembra valere soltanto quando si torna 'vittoriosi' sul proprio destino e sulla sorte. Poi in un attimo di paura tutto si trasfigura, mentre la morte non veduta prosegue il suo lungo giro nel territorio di una umanità sperduta.
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