giovedì 6 novembre 2014
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​Caro direttoresto leggendo “La guerra dei nostri nonni” di Aldo Cazzullo. E ho notato che 100 anni fa c’era più rispetto per la nostra lingua, oggi sembra tutto più sciatto, volutamente impoverito (parlo di lingua) come se nella costruzione della frase avessimo abbandonato metà tra sostantivi aggettivi avverbi... Lei  hai capito la causa di questa deriva linguistica? Cordiali saluti.Marco Sostegni, Vinci (Fi)Faccio fatica anch’io ad accettare la deriva linguistica di cui lei, caro amico, a ragione si duole. Anzi non riesco proprio a darmene pace. E non c’è neppure bisogno di tornare indietro di un secolo per rendersi conto del patrimonio che abbiamo preso a dilapidare con estrema rapidità, a me pare, soprattutto dagli anni 80 del Novecento in poi. Quest’estate, in cerca di consolazione mi sono tuffato di nuovo tra le pagine di un paio di libri, che mio padre mi consigliò e che amai molto: “Le libere donne di Magliano” (1953) e “Biondo era e bello” (1974) di Mario Tobino. Si dirà: l’italiano di uno scrittore e poeta è naturalmente ricco. Ed è vero. Ma ho citato Tobino perché era certamente un uomo colto ed è stato un autore prolifico, ma il suo lavoro “principale” (e interpretato con quotidiana e generosa passione) era un altro: faceva lo psichiatra. So però che nel libro di Aldo Cazzullo che lei cita, e che io conto di leggere, l’italiano che l’affascina e che rimpiange emerge anche dalla prosa umile e non sempre perfetta dei diari dei soldati inviati e inchiodati nelle trincee della prima guerra mondiale. Penso, come lei, che sia una grande lezione. E ho avuto la gioia di sentirla echeggiare nelle voci dialettali e nelle (scelte) citazioni epistolari che scandiscono “Torneranno i prati”, l’ultimo straordinario film di guerra, anzi di pace, che ci ha regalato Ermanno Olmi. Qui stanno le cause della grazia antica e della disgrazia presente dell’italiano. Le lingue sono “viventi” che continuano a svilupparsi quando sono custodite letterariamente “dall’alto” (e perciò ci servono testimoni creativi e rigorosi). Ma per resistere hanno bisogno di essere amate, cioè abitate con allegria e fedeltà “dal basso” (e tocca a noi, ma non da soli, con la compagnia di maestri preparati a donarci la ricchezza di lemmi, di costruzioni e di sfumature colte e popolane della nostra lingua). So che in mezzo, tra questi due poli, l’alto e il basso, con grandi responsabilità, ci siamo pure noi cronisti che scriviamo sui giornali e parliamo per radio e in tv. E vorrei tanto che fossimo all’altezza di un dovere che, personalmente, sento molto e che negli anni 50 e 60 venne anche splendidamente interpretato dalla nascente tv, dalla radio e da larga parte della stampa. Ma purtroppo so che non è più così. E non mi nascondo affatto che all’origine dell’immiserimento dell’italiano ci sono in misura non piccola anche colpe dei nostri mass media. Ricambio il suo cordiale saluto.
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