giovedì 14 gennaio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
La lettera che segue, scritta il 31 dicembre 2009, è stata indirizzata da un nostro lettore a Dino Boffo. La pubblichiamo con il consenso del destinatario. Caro Dino,in quest’ultimo giorno dell’anno, giorno di bilanci e di riflessioni, di un anno carico di eventi, in una stagione della vita di bilanci e di riflessioni, sento il bisogno di dirti.Tu mi conosci appena, lo so. Dopo i campi di Pianazze ci siamo incontrati poche volte, l’ultima a Roma due anni fa con Adriano Pessina. Sempre ho percepito la stessa consonanza. Il ruolo che hai svolto nella formazione di una generazione, prima in Azione Cattolica e poi al giornale, ti ha reso continuamente presente nelle nostre vite, che hanno preso strade diversissime e si sono sparpagliate per mestieri, famiglie, scuole, sindacati, professioni, parrocchie, università, diocesi, consigli di amministrazione, ospedali… vite che hai accompagnato in tutti questi anni. Certo gli educatori sono stati tanti, ma il tuo esempio di fede, di una persona esigente prima di tutto con se stesso, e poi di continuo equilibrio, è sempre presente e incisivo.In ciascuno dei ruoli che la vita ci ha riservato, noi, che abbiamo condiviso la seminale esperienza dell’Acr di quegli anni, abbiamo laicamente portato – o cercato di portare – un mandato. Chi come me è meno ferrato in teologia, in filosofia e in spiritualità, lo vive semplicemente come il mandato della Parola, e nei momenti di gioia e di pena, nei momenti delle scelte, della tentazione, dei bivi e degli interrogativi, non manca di rivolgere la preghiera allo Spirito Santo perché ci aiuti a portare a termine la nostra vocazione. Già, mi pare di sentirlo ancora Tommaso Federici, severo, coltissimo e vagamente canzonatorio, innamorato dello Spirito Santo, che si fuma il suo toscano annuale nel giorno dell’Assunzione.Nei giorni del massacro mediatico che ti ha colpito ero all’estero. Ho appreso tutto al mio rientro, a cose fatte. Ho chiamato Belpietro – lo conosco –; gli ho detto che forse era ancora in tempo a smarcarsi evitando un errore tragico e grossolano. Mi ha fatto capire che non era lui a dettare la linea, e che comunque a dimissioni date c’era ben poco da fare. Lo schiaffo dato a te è stato uno schiaffo per tutti noi. Il tuo dolore è stato il nostro. Scusa se te lo dico, so che lo senti senza bisogno che te lo dica io. Non ti ho visto, non ti ho sentito, ma so che hai pregato e che preghi e che quello è stato il tuo conforto, come sempre. Ma da allora, soprattutto durante i viaggi in cui si spendono tempo, cuore ed energie per portare alto nel mondo il nome italiano, un pensiero mi accompagna. Ma che Paese mai abbiamo lasciato crescere durante questi decenni, un Paese che massacra le sue forze migliori? Un Paese in cui la menzogna ha libera cittadinanza e si tramuta in violenza? Che esempio hanno i giovani: anche loro hanno diritto come noi, a credere nel futuro. Dovranno aggiogarsi a uno stile di prepotenza che trapassa ormai dalla politica nella vita sociale?Dino, io vivo a Milano, nella cultura medica, nell’Ospedale e nella società. E vivo nel mondo, in America, in Europa, in Cina. Non è la città «col coeur in man» che rimpiango, quella non può più esistere nel tempo della comunicazione in tempo reale. Ma non vedo più la Milano capace di attrarre ed integrare le migliori forze del Paese e del Continente. Io vedo grandi manovre per esempio attorno all’Expo 2015, dove realtà criminali non nascondono neanche più la mano, dopo aver penetrato la vita civile, economica e professionale di questa città.Allora mi pongo una domanda, la stessa di allora e di sempre. Se il Signore vorrà, ci mancano ancora 20 anni di vita attiva. A cosa ci chiama? Mi sconforta la visione di come riconsegneremo questo Paese che abbiamo ricevuto dalle mani di De Gasperi e di Paolo VI. È solo una riflessione, forse superficiale, ma forse – come in tutti questi anni – tu hai un suggerimento, umile come nel tuo stile, per me e per quelli come me. Credimi, siamo in tanti. Il Signore ci accompagni.

Alessandro Fiocchi, medico, Milano

Questa lettera, bella e intensa, è arrivata alla direzione di Avvenire. Ho cominciato a scorrerla senza rendermi conto del destinatario. E anche se ho capito ben presto che non era indirizzata a me (o, impersonalmente, al giornale) non sono più riuscito a staccare gli occhi dal foglio. Dino Boffo mi ha perdonato per questo, ma mi ha chiesto anche – per riparare – di rispondere, io, al dottor Fiocchi. Ci proverò. Con tutta la semplicità e l’umiltà che impone il peso della domanda dolce e bruciante sull’«a che cosa siamo chiamati» qui e ora.Ciò che mi sento di dirle, caro Fiocchi – e che mi sento di dire a me stesso – è che, da cristiani, siamo chiamati a essere sino in fondo quello che siamo, senza ingenuità ma anche senza mai scadere nel cinismo. Siamo chiamati a essere, comunque, in qualunque condizione, segno del bene in cui crediamo e che, siamo certi, opera tra gli uomini anche oggi. È una chiamata che ci chiede (e ci dà, ma mai una volta per tutte) serenità e forza, lucidità e spirito di servizio. Avversità e malignità, bastoni tra le ruote e cattivi esempi, esaltazioni del successo fine a se stesso e cadute agli occhi del mondo, falsità e furbizie, brutture e piccinerie non possono e non devono demotivarci, frenarci o indurci al silenzio. Non è facile a dirsi e nemmeno a farsi, ma ci è stato detto che è possibile, e uomini e donne come noi ci hanno dimostrato che è vero. Sin dall’inizio e ancora e sempre è questo, insomma, che consapevolmente ci tocca: essere sale, sapore buono e presenza utile all’impasto della nostra società. E mentre lo scrivo, ripeto con lei e – ne sono sicuro – con Dino e tanti altri: il Signore ci accompagni.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI