martedì 4 dicembre 2012
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Sotto quota trecento, finalmente. Da nemico pubblico numero u­no, il differenziale fra i titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni, il fa­migerato spread che ha condiziona­to la politica monetaria dell’Eurozo­na e la politica (non solo economica) italiana negli ultimi due anni, ha in­franto una soglia tecnico-psicologi­ca significativa, viatico per una di­scesa ulteriore. Risultato lungamen­te atteso, per quanto non ancora suf­ficiente, che sposta l’Italia e il suo far­dello di debito in una zona di sicu­rezza ancora più lontana dal burro­ne dell’insolvenza.Gli interventi del­la Bce e il pur farraginoso salvatag­gio della Grecia hanno di certo con­tribuito a distendere le tensioni sui mercati. Ma è altrettanto innegabile che il durissimo processo di risana­mento dei conti pubblici avviato dal governo Monti abbia fatto la sua par­te. Soprattutto nel recupero di cre­dibilità - leggasi "fiducia" - da parte degli investitori internazionali, che hanno ripreso a comprare i nostri ti­toli dopo una fase in cui se ne libe­ravano quasi fossero tizzoni arden­ti, facendone crollare i prezzi e schiz­zare i rendimenti. Il merito princi­pale del decreto salva-Italia è pro­prio quello di aver scongiurato il ri­schio di un ritorno alla lira, azzeran­do un "premio di conversione" che per troppo tempo ha surriscaldato il rendimento dei Btp probabilmente di 100 punti base. All’ultima asta il Tesoro ha già bene­ficiato di questo dividendo di credi­bilità riconquistata. Dai massimi toc­cati nel novembre 2011, il costo del debito si è ridotto addirittura del 3,11%, una gigantesca boccata d’os­sigeno. E il differenziale sotto i 300 punti ne è la rappresentazione pla­stica.In questi stessi giorni, tuttavia, la Bce ha diffuso i dati sull’altro spread, quello che pagano le impre­se per finanziarsi: lo spread dell’e­conomia reale. Ebbene, il costo dei fi­nanziamenti bancari è rimasto oltre il 5,63%. A un risparmio del 3% per lo Stato, ne corrisponde uno di ven­ti centesimi di punto per le imprese. Non solo: le erogazioni in questo las­so di tempo sono diminuite di qua­si 40 miliardi e l’arsura creditizia ri­schia di tramutarsi in una stretta mortale.Molte aziende, cioè, come l’Italia un anno fa, si trovano tuttora vicinissime al ciglio del crac. Ci si e­ra in parte illusi, probabilmente, che la sola riduzione del differenziale per i Btp potesse liberare risorse per le imprese. Ma il virus del 'credit crun­ch', la stretta creditizia, appunto, ha subito in questi mesi una mutazione genetica: se prima le banche non prestavano soldi alle imprese so­prattutto perché schiacciate a loro volta dalla bolla del debito pubblico e costrette quindi a rinforzarsi sotto il profilo patrimoniale, ora non a­prono i rubinetti frenate dalla paura di non veder tornare i soldi indietro. Le sofferenze bancarie hanno sfio­rato a settembre il picco dei 120 mi­liardi.Un nuovo circolo vizioso, dun­que, molto simile a quello in cui è ri­masto incastrato il debito pubblico. In questo caso, però, la liquidità non riesce a raggiungere le imprese più che i bond governativi. Ecco allora un obiettivo essenziale per la fase­due su cui si dovrebbe lavorare. Non solo, come dichiarato ieri dal pre­mier, da perseguire per riportare il differenziale Btp-Bund a 287 punti, «l’esatta metà del livello a cui l’ho e­reditato ». Se si vuol far ripartire l’e­conomia, cioè, è indispensabile ab­battere anche il secondo spread, non automaticamente - questa l’illusio­ne - legato al primo. Uno "spread mi­nore" che divora insieme alle im­prese anche i posti di lavoro. Quota trecento o quota 287, in tal senso, sono solo un punto di partenza, non di arrivo.
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