mercoledì 22 settembre 2010
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«Obiettivi del Millennio: we can!». Al di là dello slogan accattivante («possiamo farcela»), del sostegno di personaggi famosi, dell’effettiva importanza di rimettere la questione dello sviluppo al centro dell’agenda internazionale, il titolo del summit di questi giorni mi preoccupa. Freddamente, direi che il we can è fuori posto.Si può accompagnare una persona povera, o una famiglia povera, fuori dalla trappola della povertà; ma occorre letteralmente prenderla per mano. Solo dentro un rapporto personale di fiducia, stabile e profondo, è possibile immaginare – con la fantasia della carità – un modo per mettere in circolo le potenzialità di chi è povero, creando contatti e occasioni di lavoro produttivo. Storie affascinanti, impastate di realismo e di speranza, che documentano l’intelligenza dell’amore (Caritas in veritate, 65). Si può, dunque, far uscire qualcuno dalla condizione di povertà: ma solo a uno a uno. La lotta alla povertà è un’avventura fatta di relazioni, di spazio e di tempo concreti. Ha poco a che vedere con un approccio tecnocratico, orientato a ottenere risultati soltanto mediante un’accurata programmazione degli interventi e una gestione oculata delle risorse materiali.Non che le politiche siano irrilevanti; anzi devono assolutamente fare la loro parte. Freddamente, di nuovo: le politiche devono almeno evitare di nuocere. Prendiamo le informazioni ufficiali sui progressi nella lotta alla povertà contenuti nel Rapporto «Obiettivi di sviluppo del Millennio 2010». Si dice che, complessivamente, i Paesi in via di sviluppo hanno ancora la possibilità di raggiungere l’obiettivo del dimezzamento della povertà entro il 2015, nonostante la significativa marcia indietro dovuta alla recessione mondiale 2008-09, alla crisi alimentare e alla crisi energetica. Ci si aspetta che, nel 2015, "solo" 920 milioni di persone vivranno sotto la linea di povertà internazionale (circa un dollaro al giorno), la metà di quanti si trovavano in quella situazione nel 1990.Un messaggio rassicurante? Non si direbbe. La riduzione del numero di persone in condizioni di povertà assoluta si è in gran parte verificata grazie alla crescita vigorosa di alcuni grandi Paesi, non tanto grazie alle iniziative politiche di lotta alla povertà. La marcia indietro, invece, non è del tutto estranea alle politiche internazionali: vi ha giocato un peso molto rilevante la scarsa considerazione dei possibili effetti globali delle politiche finanziarie nazionali dettate da obiettivi miopi, di breve respiro.Allora è importante che, indipendentemente dal suo titolo, il summit "riesca". Una condizione della sua riuscita è molto semplice: che i responsabili dei Paesi e delle agenzie partecipanti si incontrino veramente. Non solo la passerella; non solo il tira-e-molla su chi si deve maggiormente impegnare sul piano finanziario; non solo la sottolineatura, da parte di ogni agenzia, di quanto sia meritorio il suo campo d’intervento; non solo la prospettiva tecnocratica che continua a pensare lo sviluppo come l’esito di un programma da realizzare dall’alto. Le risorse materiali sono necessarie, ma non sufficienti: gli attori di un’uscita sostenibile dalla povertà sono i poveri stessi.«Ciascuno di noi ha una missione, ciascuno è chiamato a cambiare il mondo», ha detto pochi giorni fa Benedetto XVI a Londra, parlando a Hyde Park. Alla politica tocca un compito che nessun altro può assumersi: il governo dell’economia mondiale; la prevenzione di possibili peggioramenti della crisi, il disarmo, la sicurezza alimentare, la salvaguardia del creato, la regolazione dei flussi migratori (Caritas in veritate, 67). Compito che, in fondo, non è altro che l’ottavo degli «Obiettivi del Millennio»: «Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo», incluso un sistema commerciale e finanziario aperto, regolato, prevedibile, non discriminatorio.Alla politica globale chiediamo anche stanziamenti; ma soprattutto decisione nel fare politica per il bene della famiglia umana.
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