Secca sconfitta in Baviera della Csu di Seehofer
martedì 16 ottobre 2018

Ecco, finalmente, l’anticorpo. Un anticorpo solo funzionale, al quale attribuire un qualche significato messianico sarebbe un errore di prospettiva, ma che comunque racconta – in modo diremmo esemplare – la lezione che il corpo elettorale di un Land di assoluta preminenza economica, politica e sociale come la Baviera ha fornito non solo alla Germania, ma all’Europa intera. Perché assegnando ai Grünen – quei Verdi sempreverdi (alle elezioni europee del 2014 hanno superato il 10%, alle federali dello scorso anno hanno ottenuto quasi il 9) che varie volte sono entrati e usciti dalle coalizioni di governo – oltre il 17% dei consensi, la Baviera ha confermato che l’anticorpo ai populismi e ai sovranismi esiste.

E se i partiti maggiori – in questo caso la Cdu-Csu e la Spd – non sono più in grado di esercitare compiutamente quel ruolo, ecco che l’elettorato va a svuotare i serbatoi delle due grandi famiglie tradizionali punendole (e nel caso della Csu amputandola della storica maggioranza assoluta) colmando il bottino dei Verdi che divengono la seconda forza politica del Land e in parte anche dei Freie Wähler, quei Liberi Elettori che ricevono quasi il 12% dei voti. Certo, la prevista affermazione di Alternative für Deutschland – quasi l’11% – dimostra come l’area della xenofobia e del sovranismo più estremo sia ancora un avversario da non sottovalutare, ma il confronto numerico è più che eloquente: Verdi e Afd hanno guadagnato il 19% dei consensi, mentre Csu e Spd hanno perso complessivamente il 20.

Un travaso quasi perfetto. La débâcle dei cristiano sociali si spiega anche e soprattutto con la pessima strategia che il loro leader – il ministro dell’Interno Horst Seehofer – ha adottato negli ultimi mesi, sposando la paura e l’intolleranza propria dei populisti e facendone una clava per mettere in difficoltà Angela Merkel e la Cdu. Una scelta che dimostra come inseguire la deriva populista e xenofoba cercando di trarne qualche piccolo vantaggio sia impresa avara di premi per le forze responsabili, a dimostrazione che l’accattonaggio delle pessime idee altrui è sempre una tattica perdente.

Letteralmente a pezzi anche la compagine socialdemocratica (mai così in basso, solo nel 1893 scese al 9,3%), che ricorda un po’ la catastrofe del Pasok ellenico, finito a brandelli dopo decenni di governicchi in alternanza con i conservatori che avevano trascinato la Grecia sull’orlo del baratro. Il male oscuro del partito che fu di Willy Brandt e di Helmut Schmidt (ma nel pantheon dei 'padri fondatori' campeggia anche Karl Marx) sta nella progressiva e insieme dolorosa perdita della propria identità, fino all’afasia politica e all’insignificanza degli ultimi due anni.

All’opposto, i Verdi sono passati dall’ecologismo oltranzista e filomarxista degli anni Settanta a un realismo pragmatico capace di attrarre le sensibilità liberali insieme a una visione solidale e aperta della società che ha fatto breccia in molti elettori di ispirazione cristiana, candidandosi a diventare – sempre che il trend continui – un vero e proprio Volkspartei europeo ed europeista, capace di multiformi alleanze e di notevole presa sull’elettorato che non è disposto a indulgenze plenarie nei confronti delle destre e dei populismi. Come ama ripetere la loro leader Katharina Schultze, «non è l’immigrazione la madre di tutti i problemi: il problema sono quelli come Seehofer». Messaggio chiarissimo, recepito appieno da tanti bavaresi.

E arrivato, forse, nel resto d’Europa. Certamente il tourbillon bavarese non sarà indolore, sia sulla tenuta della coalizione di governo sia sulla fiducia che ancora i tedeschi (e la Cdu) ripongono in Angela Merkel: fra due settimane si vota anche in Assia e sarà un voto cruciale per la cancelliera. A vincere tuttavia, lo ripetiamo, è stato il battesimo di quell’anticorpo che fino a ieri sembrava non potesse esistere. Un anticorpo che oggi veste la giubba dei Verdi, ma domani – le elezioni europee sono dietro l’angolo – può incarnarsi in quei partiti, movimenti, sodalizi di tradizione democratica che non sono ancora disposti ad arrendersi. E soprattutto a uscire dall’ambiguità.

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