domenica 18 luglio 2010
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Estate tristissima per la camorra campana. Nel giro di pochi giorni finiscono in galera i capi degli “scissionisti” di Scampia, l’orribile quartiere alle porte di Napoli, che li vide in guerra, qualche anno fa, con l’antico clan Di Lauro, da cui volevano rendersi indipendenti. Da qui il nome di “scissionisti”. Il prezzo della scissione furono un centinaio di morti ammazzati. Anche lo storico clan Moccia di Afragola è stato tartassato dalle forze dell’ordine: sessanta arresti e beni sequestrati per montagne di euro. Seguono i “casalesi”. Ancora una sessantina di arresti e un patrimonio di un miliardo di euro sotto sequestro.Sorge spontanea la domanda: quanti sono questi camorristi che appestano e strozzano la Campania?. La risposta è scoraggiante. Purtroppo ciò che è emerso in questi anni è solo la punta di un iceberg. Il grosso sta ancora sott’acqua, invisibile e pericoloso. Le forze dell’ordine hanno fatto un ottimo lavoro. Eppure non basta.Scoraggia e addolora che tra i camorristi arrestati o indagati figurino imprenditori, impiegati comunali e politici. È l’albero che è marcio. La camorra è un sistema che prima di essere radicato nel territorio, lo è negli animi. Per certi aspetti è una filosofia che pesca nel torbido dell’uomo; nella parte peggiore che ognuno porta in sé.La camorra è un albero marcio, che affonda le radici marce in una fetida palude che è la cultura camorristica di tanta gente buona. Buona e rassegnata. L’albero a sua volta produrrà un frutto palpabile, violento, sanguinario. Lo scrittore Roberto Saviano ha ragione quando scrive che in Campania tutto, o quasi tutto, in un modo o nell’altro, passa attraverso le mani della camorra. Si arriva all’assurdo che, senza volerlo, la maggior parte di noi contribuisce a farla crescere e prosperare.La scure deve colpire alla radice. I camorristi, senza il pensare camorristico, senza gli agganci politici e amministrativi dei colletti bianchi, si sarebbero estinti da tempo, per morte naturale. I giovani vogliono vivere, divertirsi e sono arcistufi di chiedersi, entrando in un bar o in un centro commerciale, se quel luogo è o non è nelle mani della camorra. Hanno ragione; eppure hanno terribilmente torto. La Campania è nostra, è dei nostri figli. Occorre bonificarla, mettendocela tutta. Occorre stanare il delinquente sapendo che è tanto più pericoloso quanto più si camuffa da persona per bene. I professionisti, gli impiegati, i politici corrotti fanno più male alla nostra gente di tutti i vecchi camorristi messi insieme.Intanto occorre tenere a bada la gramigna, sapendo che cresce a attecchisce molto in fretta. Se nei quartieri a rischio gli adolescenti al soldo del camorrista riescono a guadagnare dagli ottanta ai centocinquanta euro al giorno per sei ore di “lavoro”, la loro carriera è tutta già segnata.Se ognuno facesse la sua parte non ci sarebbe bisogno di eroi. E nemmeno di “preti anticamorra”. In questi giorni don Aniello Manganiello, religioso che opera al rione “Don Guanella” da sedici anni, è stato trasferito a Roma dai superiori della sua Congregazione, perché anche lì c’è del bene da fare. Tra la gente c’è chi  si addolora. Bello. Anche nelle istituzioni c’è chi scende in campo. Si chiede che il “prete anticamorra” venga lasciato a Napoli. Siamo felici che don Aniello sia stimato e amato, ma non lo siamo per l’etichetta che gli hanno cucito addosso. Il “prete anticamorra” non esiste. Esiste il prete. Esiste la Chiesa che non può non essere contro ogni tipo di violenza e di sopruso. La Chiesa che non deve cedere mai di fronte alle lusinghe, ai complimenti e ai regali di chi non ha le mani pulite.Quello che viviamo è un buon momento per scendere tutti in campo. Ognuno facendo la sua parte, come in un coro. Senza isolare i coraggiosi, rendendoli, senza volerlo, bersagli da colpire.
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