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Abbiamo tutti, credenti e non credenti, un’Ultima Cena da spartire: l’ora della verità ci attende, quella sprofondata nei fossi, in mezzo alla poltiglia dove i lombrichi girano ciechi, o quella del Regno alato popolato dai cherubini; oppure un’altra ancora, le cui forme non sono concepibili dalla mente umana. Se vogliamo attenerci ai sacri rotoli, in una suprema dantesca accensione lirica di origine paolina, nella superstite fede delle cose sperate, dobbiamo ammettere che il Maestro, pur non essendo più fisicamente con noi, ha lasciato in dono, sul medesimo tavolo dove ci ha chiesto di ricordarlo per sempre, lo statuto dell’amicizia. Nel suo indimenticabile discorso finale, cromosoma incancellabile del carattere occidentale, continua a spiegare a ognuno di noi, con potenza rivoluzionaria, cosa questa possa essere e rappresentare: usciamo dalla dimensione retributiva che ci domina (io ti do solo se tu mi dai), proviamo a vivere affermando il valore dell’incontro fine a sé stesso.
Mai come in questo momento ne abbiamo urgente bisogno: le tragiche vicende ucraine e palestinesi, le spaventose guerre civili africane, l’eterna sciagura degli umiliati e offesi, dimostrano, per l’ennesima volta, che gli individui della nostra specie, con tutta la loro sapienza e volontà, ancora non sanno rispondere alle domande semplici dei bambini: chi sei tu? Chi sono io? Come possiamo vivere insieme? Cosa ci distingue e cosa invece ci fa uguali? C’era una concitazione nuova in ciò che Gesù disse la sera del lungo commiato, quasi non volesse lasciare niente di intentato e avesse fretta di distribuire le carte di un gioco sconosciuto. A te questo, a te quest’altro.
Gli apostoli si dichiararono convinti. Siamo qui: compatti e solidali. Nella buona e nella cattiva sorte. Pieni di volontà propositiva. Carichi di passione. Ardimentosi. Decisi a tutto. Conta su di noi. Avrai il nostro sostegno. Te lo garantiamo. Lo pensavano sul serio. Non stavano fingendo. Alcuni tremavano mentre lo dicevano. Altri si sentivano cedere le gambe per l’emozione. Eppure Lui sapeva che non era vero. Non tenne per sé questa dolente persuasione. La espresse a chiare lettere con tono lapidario: «Ora dite di credere? E invece fra poco vi disperderete. Ciascuno se ne andrà per conto proprio. Mi lascerete solo; ma io non sono solo perché il Padre è con me» (Gv. 16, 31-32). Giuda Iscariota, in procinto di tradire, sotto il peso drammatico della sua libertà, stava lì ad ascoltare, accanto agli altri e, se non bariamo con noi stessi, dobbiamo accettare che sia ancora qui, anche dentro di noi. Ogni giorno, ogni ora. È stato don Primo Mazzolari, suscitando clamore e talvolta fastidio, a chiamarlo fratello: «Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui». E poi in coscienza: chi può dire di sentirsi a posto?
È il motivo per cui non possiamo lasciare che il dibattito sulla pace sia prerogativa di politici, giuristi e governanti, riducendolo a un problema tecnico di confini da stabilire, protocolli da firmare, intese da raggiungere, mediazioni da trovare. Specialmente i ragazzi, troppo spesso imbambolati dai social, dovrebbero riscoprire un’altra forza profetica: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv, 14, 27). Non quella del mondo, sempre provvisoria, artificiale, instabile, squilibrata, pronta a tramutarsi in guerra. Ma cosa possiamo fare noi, in concreto, per tentare, se non di realizzarla, almeno di prefigurarla, qui ed ora, non chissà dove e chissà quando? Intanto dovremmo cominciare a praticare esperienze fondative sulle quali attirare l’attenzione pubblica, azioni capaci di legittimare le nostre parole, orali e scritte, gesti che siano in grado di creare comunità, ricucendo gli strappi laceranti che oggi vediamo tra scuola e famiglia, chiesa e società, agenzie educative e nuove generazioni, minoranze illuminate e maggioranze spente. Per re-imparare le ragioni della convivenza civile dobbiamo andare oltre l’esecuzione del mansionario, assumendoci la responsabilità dei contesti in cui operiamo. Resta fondamentale, a mio avviso, prendersi in carico le persone diverse da noi, procedere fianco a loro senza rinunciare all’identità che ci contraddistingue, anzi mettendola a frutto nel confronto quotidiano. Non serve sventolare le bandierine di ciò che pensiamo di essere, fare così significa avvicinare alcuni e allontanarne molti. È necessario affermare una presenza vitale, lasciandoci crocifiggere dal punto di vista altrui, come semi che rinasceranno altrove, solenni e incontrollabili, in un cammino comune da compiere passo dopo passo nella terra infangata verso la città degli uomini.