mercoledì 24 giugno 2015
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La Sindone è una debole immagine dai contorni sfuggenti: «Si resta conquistati dalla sua nobiltà, dalla sua maestà, dalla sua serietà, dalla sua tristezza» (Paul Claudel). Per oltre due mesi – fino a oggi, giornata conclusiva dell’Ostensione 2015 – è stato tutto un fluttuare ininterrotto di gente pellegrina in fronte ad essa: ore di attesa e chilometri macinati per sostare tre minuti a scrutare un Volto tumefatto dal dolore e un corpo bastonato dalle percosse Quel lenzuolo è l’immagine di un racconto: quello del Cristo. È anche il racconto di un’immagine: quello dell’umano irriso, deriso e beffeggiato. Quell’umano di periferia tanto caro a papa Francesco, pure lui pellegrino domenica di fronte a essa: quasi una carezza, la sua, a nome di tutta la Chiesa.Sembra paradossale che nell’epoca della bellezza cercata a tutti i costi e con qualsiasi mezzo ci sia chi si mette alla ricerca dell’esatto suo contrario: il dolore, la passione, la Croce. Paradosso o ambizione? Entrambi nel medesimo istante, dal momento che quel Volto è l’immagine per antonomasia della storia più ambiziosa e paradossale udita: quella cristiana. Che racconta di un Dio capovolto: non più l’uomo che muore per Dio ma un Dio che muore per l’uomo. Di una Bellezza che si lascia ferire per riannunciarsi qualche giorno dopo ancor più accecante: come un fiume carsico che scompare per poi riapparire. Come Dio, la cui assenza certuni giorni somiglia a una più ardita presenza: da cercarsi, però. La Sindone, dunque, come la narrazione di un paradosso, un quasi rebus: «Unisci i dettagli e narrami ciò che vedi». Solo il cristiano può tentarne la soluzione senza apparire ingenuo o pericolosamente illusionista. Perché scoprire dietro il fallimento un anticipo di vittoria, dietro l’oscuro del male il chiarore dell’amore, dietro il silenzio la compagnia è ciò che mise sulle graticole i martiri per cuocerli di derisione.Eppure quell’immagine giace lì, a disposizione. Tre minuti e basta: il tempo necessario per porgere lo sguardo, per abitare una Presenza, per strappare una compagnia. Perché è di compagnia che si parla dentro quei fili di lino. Al viandante che insegue la bellezza, quel lenzuolo ne presenta la traccia e un anticipo: non ci sarà bellezza senza sofferenza, non ci sarà gioia senza libertà, non ci sarà fedeltà senza rischio. Ogni bellezza tiene un suo attrezzo per farsi decifrare: lo specchio di Cenerentola, lo specchio d’acqua di Narciso, lo specchio magico di Biancaneve. Agli specchi Cristo preferì un lenzuolo, giacché le lenzuola narrano l’intimità: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Tra lo specchio dell’inganno e il lenzuolo del mistero, tre minuti. E una domanda appena dopo l’uscita: "Che te ne pare? Cosa senti dopo avermi guardata?".Tutti in fila, dunque, a rimuginare su di una bellezza abbruttita, cioè una non-bellezza. Eppure a uomini e donne cultori di quella profana, tutto ciò non suona inutile. Anzi, appare quasi consolatorio: guardare quel lenzuolo per guardarsi, amarlo per amarsi, scrutarlo per scrutarsi. Perché inabissarsi in lei è amare l’imperfetto, lo sfigurato, il deriso e l’oltraggiato. È scoprirsi uomini nel momento del fallimento, è sapersi trovati nel momento della perdizione, è sentirsi belli nell’attimo della bruttezza. Quel Volto oggi è la più tenue e frastornante delle reliquie. Quella di Chi, deriso, non maledisse la bellezza ma ne trasfigurò il significato: «Ecce homo». Non poco, per uomini e donne mai così assetati di normalità come in questo tempo di effimere eccezioni.
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