sabato 6 ottobre 2018
Così l'economia della Rete ha spiazzato l'Europa
Nell'era dei nuovi monopoli la rivoluzione è la persona
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Contro lo sboom del lavoro tradizionale le analisi convenzionali servono a poco. Forse anche per questo l’Economist per celebrare i suoi 175 anni ha redatto un 'manifesto liberale', aprendo al reddito di cittadinanza universale, alla tassazione dei grandi patrimoni, alla lotta ai nuovi monopoli digitali. I redattori della bibbia del pensiero liberista si sono accorti, insomma, che la società delle élite ha un ospite inatteso che si chiama populismo, mentre tutte le aziende dei settori tradizionali si confrontano con nuovi concorrenti che non arrivano dai settori che presidiano.

L’assedio non è inaspettato. Il bollettino dei vincitori e vinti di dieci anni di crisi spiega come si è arrivati a questo punto. Dal crac Lehman Brothers a oggi il Pil della Grecia ha perso il 24%, quello dell’Italia il 6%, tutto il resto è andato meglio: Spagna +2%, Giappone +4,7%, Francia +6,7%, Germania +10,9%, Gran Bretagna +11%, Usa + 14%, Irlanda +38%, Cina +120%. La dittatura della turbo finanza, la mancanza atavica di competitività, l’avvento dell’economia digitale e, indubbiamente, l’austerity della troika applicata (in modo ancora soft e indiretto) a Roma così come (brutalmente) ad Atene e altrove, sono state tra le concause di questa faglia che si è aperta tra le varie economie e che sarà al centro delle prossime elezioni europee, sicuramente le più partecipate della storia dell’Unione.

Non c’è però in ballo solo la contrapposizione tra classi dirigenti e popolo come si pensa nella redazione del settimanale anglosassone, ma è cruciale il rapporto tra new economy e old economy. La prima, viaggia alla velocità della luce grazie alla Rete, senza limiti, priva di freni o regolamenti che tengano. La seconda (la nostra), è imbrigliata da una serie di norme comunitarie che di fatto rendono impossibile la spesa per investimenti di ciascun Paese dell’Eurozona, hanno costretto le banche a fare pulizia nei bilanci senza quegli aiuti statali così cruciali negli Stati Uniti - dove Donald Trump festeggia record su record a Wall Street e a Main Street - reprimono ogni vero piano di ripresa. In sostanza, noi europei abbiamo troppe regole per una crescita già anemica, gli americani, i cinesi e gli indiani, hanno poche regole che permettono una crescita vigorosa.

Se sono troppe le variabili imprevedibili (oggi la crisi turca, ieri quella dei Brics domani l’Argentina in un valzer senza fine), occorre concentrarsi su ciò che sta andando bene nel mondo da almeno cinque anni, l’Internet delle cose, per capire se questo modello è utilizzabile in qualche modo anche nella vecchia Europa. La digitalizzazione di molti processi industriali e commerciali, decantata da Jeremy Rifkin, sta trasformando, anzi ha trasformato, la nostra comunità, anche nei rapporti più semplici: una persona autorevole come il presidente della Bce Mario Draghi è arrivata tempo fa a dare la colpa anche all’e-commerce se i prezzi non salgono come dovrebbero, alimentando la catena della domanda e dell’offerta. Ma la questione è ben più complessa di un clic che permette di bypassare gli esercizi tradizionali, mettendo in un angolo intere filiere economiche, come dimostrano gli ultimi straordinari dati sul commercio digitale che è cresciuto in Italia quasi del 10%, molto più di quello tradizionale.

Alcune cifre sull’ubercapitalismo, quel particolare capitalismo che si fonda sulla dematerializzazione di tutti i processi produttivi a vantaggio del capitale e spesso a danno del lavoro, lo dimostrano in modo lampante. Airbnb valeva 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per 2,3 e occupa circa 500 dipendenti ma ormai ha un milione di case in affitto in giro per il mondo (l’Italia è terza in questa classifica). Snapchat era quotata dagli analisti 26 miliardi, ne ha raccolti 1,2 e dà lavoro fisso ad appena 400 individui. Uber, varrebbe ancora tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati diretti (esclusi, per ora, gli autisti). Oltre una settantina di start up valgono così oltre 80 miliardi di dollari e impiegano (forse) 10.000 addetti in tutto, come i dipendenti della Telecom o dell’Atac. E questo vale anche per i colossi che invece sono quotati in Borsa. Una ricerca di Mediobanca R&S ha mostrato come le aziende internettiane (Google, Microsoft, Facebook, Amazon) capitalizzano molto sui listini ma fatturano e occupano di meno rispetto a colossi tradizionali manifatturieri quali Apple, General Electric, Johnson & Johnson, Nestlè. Significa che servono sempre meno dipendenti per creare più ricchezza. Più capitale e meno lavoro. E la ricchezza si crea molto più facilmente se si vive in quella parte di mondo dove non è in vigore il Fiscal Compact, la Federal Reserve stampa denaro e i nuovi Zuckerberg trovano facilmente finanziatori senza aspettare il piano Juncker o di chi verrà dopo di lui.

Non siamo di fronte a un rallentamento dell’economia, è solo il suo 'naturale' andamento, con cui ci dobbiamo confrontare. Forse anche il manifesto dell’Economist dovrebbe prendere atto che il tunnel da cui si doveva uscire è finito da un pezzo, ma corriamo su una strada provinciale e non su un’autostrada a otto corsie. Il tema è fondamentale per alcuni comparti tradizionali, come ha dimostrato la battaglia sul copyright digitale al Parlamento Europeo e come sanno bene nel settore bancario, dove più che Fintech temono la banca che verrà di Apple, Google, Facebook o magari, Amazon, Alibaba, Microsoft. Tutto è possibile. Queste aziende transnazionali hanno un marchio potente, milioni di utenti, operatività e relazioni su scala globale. Come gli istituti di credito di una volta, insomma. E si muovono non per fare finanza come core business, ma prima di tutto per trattenere i clienti nel loro spazio virtuale, utilizzando i loro dati personali come inconsapevole corrispettivo di un servizio.

Si badi bene, questo non è un ragionamento tecnofobico. Noi tutti ci avvantaggiamo della facilità di condividere una casa, un’automobile, un servizio alla persona, ma non si può negare che se questi giganti del web continuano a creare così poco lavoro, ci sarà un impatto sul reddito disponibile e dunque anche sui consumi. Con diretta conseguenza per Pil, debito e old economy. Il modello che gli Stati Uniti Digitali, intesi come gli over the top, stanno imponendo a tutti (nel 2020, negli Usa, il 40% dei lavoratori sarà autonomo) è quello della flessibilità del lavoro e della massima remunerazione del capitale in un contesto di nuovi monopoli. E in questo scorcio di secolo, noi europei abbiamo purtroppo fatto una scelta fatale: sono state imbrigliate le spese degli Stati e bloccate le opere pubbliche, mentre gli americani hanno lasciato liberi entrambi. Non tutto è perduto, basta avere chiaro questo quadro d’insieme.

Il capitalismo della Rete ha creato spazi inimmaginabili per i consumatori, la concorrenza e la creazione di plusvalore, ma ha anche reso possibili nuove rendite di posizione. Lo stesso cittadino si è fatto mercato, diventando fattore propulsivo della 'economia condivisa', carburante per i colossi digitali e in ultima analisi anche causa della sua stessa, possibile, disoccupazione. Ripartire da lui e da lei, dalla persona umana, sarebbe la più grande delle rivoluzioni 'liberali'.

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