domenica 1 marzo 2015
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Caro direttore, ho letto con interesse la lettera di un lettore, e la sua risposta, che venerdì scorso, 27 febbraio, hanno richiamato un’intervista «a un caposala di Careggi» comparsa su “Repubblica”. Anche io sono un infermiere, non caposala, lavoro da circa venti anni, gli ultimi dieci in una Rsa, con persone malate di Alzheimer.  Anche io sono cattolico, e praticante. Ho voluto leggere l’articolo in questione. Anche io sono rimasto interdetto: mi è sembrato superficiale, poco chiaro nel definire i «30-40 casi annui» di possibile non accanimento terapeutico, o di possibile eutanasia passiva che evoca.  Penso che potrebbe semplicemente trattarsi di una voluta strumentalizzazione giornalistica di scelte ragionevoli e lecite di non accanimento (anche cristianamente dovute), montate con voluta confusione per far emergere un dato di eutanasia sommersa assolutamente irreale. Ma devo anche dire che è vero che il codice deontologico infermieristico, nonostante i molti articoli che impediscono la partecipazione degli infermieri ad atti eutanasici, negli articoli 36 e 37, lascia una zona di non totale chiarezza, rimandando al rispetto della volontà del paziente (anche pregressa), e quindi non escludo che qualcuno possa sentirsi autorizzato ad attenersi unicamente a questa. Certo, le opinioni antiscientifiche e poco rispettose della dignità delle persone in stato di minima coscienza espresse nell’intervista anonima mi hanno colpito. Lei, direttore, ha scritto di non riuscire a credere che possano far parte del pensiero di un professionista laureato, di un mio collega... Mi rattrista dirle che non è esattamente così .Le opinioni antiscientifiche riguardo ai malati in stato di minima coscienza sono diffuse anche tra di noi, come tra gli altri professionisti della sanità, come nel resto della società. Basta pensare a come sono state definite persone come Eluana Englaro, o Max Tresoldi persino da medici che operano in importanti ospedali: «Suo figlio/a è come un tronco morto»... Un vegetale, appunto. Perché?  Perché pochi sono a conoscenza delle “novità” di alcune ricerche in merito, alle quali hanno contribuito anche centri italiani. Consideri per di più che la rivista medico scientifica (New England Journal of Medicine) che pubblicò già alcuni anni fa la ricerca che ha aperto nuove prospettive nella classificazione degli stati di minima coscienza, accolse il testo dei ricercatori accompagnandolo con un ironico e scettico commento (titolato “Cogito ergo sum”), nel quale tentava di sminuire la portata delle scoperte, e sostanzialmente ribadiva che per la “qualità della vita” di chi si trovava in questa grave disabilità poco cambiava.  Perché il pensiero forte di questi tempi è che la vita ha valore, è degna, solo fin che sei nel pieno del vigore fisico e psichico.  È ben noto, ai lettori di “Avvenire”, quanto il fronte dei Paesi pro eutanasia si va allargando. E che in nazioni civili come la Gran Bretagna, si sia data negli ultimi anni una applicazione eutanasica a un protocollo di cure palliative terminali, allargando a dismisura, in modo fraudolento e criminale, i criteri di inclusione dei malati (talvolta perfino a insaputa degli interessati e dei loro parenti). Tutto per ottenere una riduzione dei costi dell’assistenza. Nella nostra società sta diventando “normale” pensare che ci sia una vita degna e una vita non più degna. E chi non è degno può avere solo il diritto di morire.  «Cultura dello scarto», la definisce papa Francesco. È una cultura pervasiva, forte, radicata, perfino accattivante, ti fa credere che sei tu a scegliere, a determinare la tua vita: è una colossale menzogna, dietro c’è sempre qualcuno che ottiene un vantaggio dalla tua uscita di scena. Come reagire? Con la cultura dell’Amore, con la conversione personale, mostrando con i nostri gesti e con un cuore dove non trovino più spazio pensieri di superiorità, di disprezzo, di commiserazione verso «i nostri fratelli più piccoli», per far scoprire a chi ci sta vicino che ogni vita è sempre degna. Senza disprezzare nemmeno chi fa classifiche di dignità, perché anche lui è un fratello. Certo, sentire e vedere pubblicati su un giornale certi discorsi sulla presunta dignità/qualità della vita di persone malate rattrista e preoccupa, ma essere consapevoli della realtà – “Avvenire” ce lo ricorda tutti i giorni in ultima pagina – è il primo passo per attivarsi e cambiare noi stessi. Marco Montanari La ringrazio per questa appassionata testimonianza umana e professionale, caro amico. Siamo d’accordo su quasi tutto, e soprattutto sull’indisponibilità ad arrenderci al pensiero utilitaristico e perfettista che vorrebbe imporsi come pensiero unico sull’umanità e sul mondo. Dico che siamo “quasi” totalmente d’accordo, perché continuo a non riuscire a credere che un professionista che per di più sia, e si dichiari, «cattolico praticante» possa – come nell’intervista anonima di “Repubblica” – parlare con leggerezza e imprecisione liquidatoria di persone infragilite dalla malattia o da una grave disabilità. Quanto allo strano sussiego di chi, pur avendo titoli scientifici, sembra non riconoscere alla scienza la possibilità di progredire nella comprensione degli stati di minima coscienza – che lei richiama, citando un clamoroso caso – trovo che sia la conferma del pregiudizio di personaggi che non concepiscono la indistruttibile dignità di ogni vita umana in qualunque fase e condizione, e nutrono una strana predilezione per la morte e per la morte “a comando”. Visione che non è certo propria dei cristiani (che la morte non temono e non venerano), ma che non è affatto vero che caratterizzi chi si dice “laico”.
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