martedì 26 gennaio 2016
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Come molti temevano, ieri pomeriggio il Parlamento di Tobruk ha negato con 89 voti contrari su 104 la fiducia al governo di unità nazionale guidato dal primo ministro Fayez al– Sarraj e sostenuto dalle Nazioni Unite. All’origine della bocciatura, l’ottavo articolo dell’accordo di riconciliazione nazionale firmato nel dicembre 2015 a Skhirat in Marocco (che tuttavia il Parlamento ha approvato, se pure con riserva), che avrebbe conferito all’esecutivo il comando supremo delle forze armate e di conseguenza il potere di nominare gli esponenti militari e delle forze di sicurezza e di proclamare lo stato di emergenza. Sarraj ha ora poco più di una settimana di tempo per presentare un nuovo governo e una nuova lista di ministri, molto probabilmente meno elefantiaca della precedente ma con un nodo delicatissimo da sciogliere: il ruolo da riconoscere al generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, formalmente sospettato di corruzione e fortemente ostile a quell’articolo che di fatto lo esautorava dalla guida delle forze armate libiche. Nulla di nuovo sotto il sole. Il caos dell’ex colonia italiana dura da cinque anni, da quel 2011 che vide esplodere quelle che con un eccesso di ottimismo furono chiamate 'primavere arabe' e che una dopo l’altra – con la sola eccezione della Tunisia, che proprio per questo sta pagando un pedaggio altissimo – hanno finito con il collassare. Né ci possiamo meravigliare per l’inerzia, la litigiosità e l’inconcludenza della classe dirigente (se così possiamo chiamarla) di un Paese che per quarantadue anni è vissuto nel limbo della jamahiriya gheddafiana e che ignora – come potrebbe essere altrimenti? – la nozione di Common Good su cui si fondano le nostre democrazie, privilegiando i caratteri e gli egoismi tribali nelle dispute sulla spartizione del potere. Il problema si complica ulteriormente dal momento che il Daesh, in seria difficoltà nel quadrante iracheno–siriano dopo la riscossa sul terreno dell’esercito fedele a Bashar al–Assad e le ripetute incursioni aeree dovute principalmente all’aviazione russa, ha cominciato a spostare uomini e mezzi in Libia. Secondo il quotidiano edito a Londra Asharq Al-Awsat esiste un progetto di fusione fra i quadri del califfato presenti nella zona di Sirte, Ras Lanuf e Adjabiya e jihadisti libici legati ad al–Qaeda al fine spartirsi future zone di influenza: al Daesh Sirte e la zona dei pozzi petroliferi (non a caso oggetto di continui attacchi negli ultimi giorni), ai jihadisti Tripoli. Non è tutto. Secondo Rob Wainwright, direttore di Europol (l’agenzia dell’Unione europea finalizzata alla lotta al crimine), ci sono tutte le ragioni per aspettarsi che il Daesh, o terroristi che si ispirano al Daesh o un altro gruppo terroristico ispirato da motivi religiosi, possa condurre di nuovo un attacco in Europa, in particolare in Francia, con lo scopo di «provocare morti di massa tra la popolazione civile».Ed è la Libia la nuova base e la nuova preda del Daesh, e sempre in Libia che il Califfato si prepara a consolidare le sue nuove roccheforti – a Sirte, soprattutto, la nuova Raqqa di al–Baghdadi – e lanciare la sua minaccia nel mondo. Ma c’è un altro e ben più significativo danno collaterale legato allo stallo istituzionale di Tobruk: fino a quando non si sarà insediato un governo legittimamente votato dalla Camera dei Rappresentanti, non sarà possibile una richiesta di aiuto militare contro il Daesh da parte della Libia. A ben vedere, unità americani, inglesi e russe (ma aggiungiamoci pure gli italiani) sono già presenti sul terreno, ma l’intervento militare vero e proprio necessita di sponde istituzionali che al momento non ci sono. Oggi a Tobruk si voterà di nuovo, questa volta sulla modifica della Dichiarazione costituzionale, la Costituzione provvisoria che deve recepire elementi dell’accordo politico di dicembre. Il tempo gioca a favore del Daesh. I ritardi libici, anche. Ma questa è la cosa più difficile da far comprendere ai tanti padroni e padroncini che si litigano poltrone e spicchi di deserto sotto gli occhi del Califfo.
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