Recovery: appunti per la progettazione
mercoledì 9 settembre 2020

Con l’ormai prossima apertura della 'finestra' nella quale l’Unione Europea potrà ricevere i progetti italiani (dal 15 ottobre 2020 al 30 aprile 2021) si fa sempre più serrato il dibattito sul Next Generation Eu (più noto come Recovery Fund). Siamo tutti consapevoli che si tratta di un’opportunità irripetibile, superiore per ammontare di fondi in assoluto e in rapporto al Pil a quella del mitico Piano Marshall che risollevò anche il nostro Paese nel secondo dopoguerra novecentesco. A oggi c’è stata una prima messe di progetti (più di 500 per un ammontare totale che sfora di molto il tetto delle risorse finanziarie a disposizione) a capo dei diversi Ministeri e adesso inizia un difficile processo di selezione.

Nel frattempo il dibattito (anche per mancanza di informazioni più dettagliate) sembra ruotare attorno ad alcuni luoghi comuni. I progetti sono troppi, sono vecchi e tirati fuori dai cassetti in cui giacevano, al contrario bisognerebbe puntare su poche grandi iniziative. Questo approccio in realtà confonde visione di fondo e linee guida con i progetti propriamente detti e, se perseguito fino in fondo, aumenterebbe i rischi dell’intera iniziativa.

Un elemento di garanzia che ci mette al riparo da molti dei problemi sopra paventati è che il Recovery Fund è un fondo a durata limitata e dunque i progetti devono obbligatoriamente finanziare investimenti e non spese correnti. Inoltre la direzione di marcia, assolutamente condivisibile, indicata con chiarezza dalle autorità comunitarie, indica che le parole chiave su cui i progetti verranno valutati sono transizione ecologica, digitalizzazione, coesione sociale, semplificazione amministrativa, capacità di coinvolgimento dei privati, in una concezione dove lo Stato non si fa imprenditore, ma piuttosto catalizzatore ed enzima che attiva processi che creano valore. Conoscendo bene pregi e difetti del carattere italico (estro e capacità d’innovare, che porta con entusiasmo all’atto creativo iniziale, ma poi manca di tenacia nell’esecuzione e nel completamento dell’opera anche per via delle tante barriere amministrative e burocratiche) saremo incalzati dalla Ue sugli iter di realizzazione, da indicare in tappe precise, con ben delineati obiettivi intermedi da raggiungere. La combinazione tra il nostro estro e questi opportuni paletti potrà produrre un ottimo risultato.

Una volta dunque assicurata una direzione di fondo e delle regole d’ingaggio ben precise, l’idea di puntare su pochi grandissimi progetti (ragionando su un ammontare complessivo enorme, superiore – come si sa – a 200 miliardi di euro) non è affatto la migliore. Viviamo in un mondo pieno di fattori di rischio dove gli scenari mutano continuamente (per fare un esempio prima del Covid avremmo detto che le aziende della ristorazione che puntavano sulla clientela degli uffici all’ora di pranzo erano sulla strada giusta, ora dopo il Covid questa strategia è quella più in crisi). Dunque diversificare il rischio con molti progetti è un pregio e non un difetto. D’altronde la molteplicità dei progetti è anche dettata dall’enorme numero dei problemi che abbiamo sul tappeto (ammodernamento delle infrastrutture ferroviarie, rete idrica, diseguaglianze digitali per fare solo alcuni esempi), non sintetizzabili in un piccolo numero di questioni e ognuno dei quali risolvibile con una gamma diversificata di progetti.

La questione decisiva di cui dovremmo parlare in questi giorni è invece quella dei criteri (assumendo che i 500 e più progetti o la gran parte di essi rispettino tutti i requisiti comunitari sopra descritti) per selezionare il numero più ristretto di progetti da presentare dopo il 15 ottobre.

La metodologia da adottare, ad avviso di chi scrive, è assolutamente chiara e deve fare riferimento alla multi- dimensionalità degli obiettivi che ci poniamo per avviare una ripresa che vogliamo sia resiliente, sostenibile e generativa. In concreto abbiamo bisogno di qualcosa che aumenti la nostra capacità di creare valore economico in modo ambientalmente sostenibile (riducendo il consumo di risorse naturali, le emissioni inquinanti, gli effetti sul riscaldamento globale) generando buona occupazione.

E le iniziative adottate non devono essere esposte ai rischi sanitari che abbiamo conosciuto e, soprattutto, devono contribuire a migliorare la qualità del nostro vivere. Su questo ultimo punto, come ormai sappiamo bene dalla frontiera della ricerca nelle scienze sociali, soddisfazione e qualità di senso del vivere dipendono dalla qualità della nostra vita di relazioni, dalla possibilità di conoscere e imparare cose nuove e di contribuire con le nostre azioni al miglioramento della vita altrui.

Non è particolarmente difficile, una volta chiarito l’obiettivo, effettuare un’ulteriore selezione dei progetti sulla base di un approccio multidimensionale fondato su queste premesse. E non c’è più dubbio che economia circolare, adeguamento delle infrastrutture fisiche e digitali, efficientamento energetico degli edifici (110%), incentivi alla sostituzione del parco auto con vetture più ecologiche, investimenti contro la crisi demografica, smart work con investimenti per ridurre le diseguaglianze digitali sono tutte frecce che puntano nella direzione giusta. Se impostato in modo corretto il risultato finale sarà quello della selezione dei progetti a più alto rendimento economico e sociale e l’utilizzo più 'efficiente' delle enormi risorse finanziarie a disposizione.

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