domenica 27 febbraio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Stiamo attraversando tempi in cui il dibattito sui comportamenti è entrato nelle nostre case e affiora nei i dialoghi attorno a un caffè tra colleghi e amici. Alla popolarità dell’etica "in terza persona" – quella dello spettatore che si tiene lontano dal palcoscenico per non rischiare di immedesimarsi o di essere confuso con gli attori – corrisponde un’emarginazione della coscienza morale, dell’"io" in azione che si interroga su se stesso, sulla qualità di bene o di male dei propri desideri e atti, non di quelli degli altri.Alcuni vorrebbero insegnare come difendersi dalla tirannia del moralismo e far tramontare l’apoteosi dell’etica pubblica. Altri ne celebrano il trionfo, quasi preludio di una catarsi della società e della politica. Il grande assente resta il soggetto antropologico, l’uomo reale, concreto quale io sono, con la sua inalienabile dignità che gli deriva dall’essere l’unico abitante dell’universo che porta la coscienza di sé e del mondo, che vive la drammatica tensione tra la propria finitudine e la vocazione all’infinito, tra il desiderio del bene e il fascino suadente del male. Alla necessità di un ritorno alla coscienza come «cuore dell’umano» ha fatto riferimento Benedetto XVI nel limpido e incisivo discorso di ieri all’Accademia pontificia per la vita. Il Papa ha ricordato che uomo e coscienza coesistono originalmente: la seconda non è una sovrastruttura facoltativa, della quale ciascuno di noi si possa servire in talune circostanze e disfare in altre. «A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale dell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o a un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano». Il male non è solo una malattia della vita pubblica, della vita degli altri, da denunciare e da curare, ma è dentro ciascuno di noi per quella «ferita originale» con la quale veniamo al mondo, «cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere». Il riferimento al dramma dell’aborto, che lacera la coscienza della donna fino a incidere nella sua psiche anche per molti anni, diviene allora esemplare della drammaticità dell’umana esistenza, resa ancora più acuta da «uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita». Una considerazione cara a Benedetto XVI, sin dall’inizio del suo pontificato, ripresa nel motu proprio Ubicumque et semper sulla nuova evangelizzazione: «Il grande problema dell’Occidente è l’oblìo di Dio: un oblìo che si espande» in ogni piega della vita, allargando quel «deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose». Il ritorno alla coscienza non è separabile dal ritorno al fondamento, all’Essere, la meraviglia per tutto ciò che esiste in me e attorno a me, ma che non ho fatto io. «Due cose mi riempiono di stupore – diceva Kant –: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. [...] Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza». Di questo stupore ha bisogno ciascuno di noi per ricominciare a vivere ogni mattina, e l’intera società per far rifiorire la vita pubblica e il bene comune.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: