Nel tempo degli archivi digitali la memoria si alimenta di vita vera
sabato 28 gennaio 2023

La Shoah e il rischio di un’«impermeabilizzazione» strisciante È possibile che nel tempo degli archivi digitali senza limiti di capienza possiamo perdere la memoria? Studiosi di fenomeni mediali e indicatori sociodemografici sono concordi nell’avvertirci che sì, questo apparente assurdo logico è probabile, anzi, ormai persino certo e documentato: quanto più appaltiamo alle macchine ciò che dovremmo sapere in conto proprio tanto più facilmente dimenticheremo persino quel che abbiamo vissuto in prima persona, figuriamoci vicende che ci sono state riferite. Uno stato di oblio che dilaga e cresce, colpisce figli e genitori, insidia anche patrimoni collettivi che si davano per acquisiti una volta per tutte e che invece sembrano scolorire per poi dissolversi. Parevano affidati alla custodia di tutti, e invece chi li ricorda se non un manipolo di cultori? A colpire duro è l’effetto-cloud, con la memoria immateriale degli archivi tecnologici dove galleggiano i ricordi come in un congelatore che conserva tutto intatto ma tutto lascia in uno stato di sospesa lontananza dalla vita vera, che intanto scorre altrove.

A questo fenomeno collettivo si sta sommando lo tsunami annunciato dei sistemi di intelligenza artificiale per l’accesso alla conoscenza, e dunque anche alla sua parte legata al ricordo di una comunità. La “malattia” della memoria stavolta si chiama ChatGpt, sorta di oracolo digitale al quale si può chiedere qualunque cosa ottenendone risposte di solito pertinenti, forse persino cor-rette, algide ed essenziali come si conviene a una macchina che reagisce col suo linguaggio incredibilmente sofisticato eppure elementare ai nostri interrogativi: gli chiedi un’informazione, e lui (o lei?) te la fornisce con l’efficienza impersonale di un maggiordomo inglese.

Ma la memoria non è solo navigazione efficiente in un dedalo di informazioni: è vita, cuore, affetti, emotività, paura e ardimento, sete di sapere e impulso di rimuovere, curiosità e attenzione, fuga o indignazione davanti all’orrore. Prima di tutto, è consapevolezza interiore e giudizio. E non c’è tecnologia per quanto sconfinatamente capace di ammucchiare nozioni che possa restituirci la nostra attitudine tutta e solo umana di essere memori e coscienti, se non la nutriamo. Forse è anche per questo che impressionano le parole di Liliana Segre, che alla vigilia della Giornata che ci pone ogni anno di fronte al duro confronto con la Shoah – orrore senza fondo, chiave indispensabile di tutte le profanazioni blasfeme della dignità umana – ci ha ammoniti sul rischio più che tangibile di considerare persino noiosa la memoria annuale della tragedia d’odio abbattutasi sul popolo ebraico, con la tentazione di rimuoverla e di lasciarne tra qualche tempo giusto pochi cenni sui libri di storia, e nessuno nella coscienza del mondo. È così? I segnali che giungono dalle scuole fanno temere che possa aver ragione: c’è una ritualità delle giornate a tema che in alcuni casi finisce per suonare vuota a ragazzi e ragazze che sembrano incantati dalla finzione dei social e invece proprio da questa sono allenati assai più di noi adulti a distinguere l’autenticità dalla retorica. Non nascondiamoci, parliamone con sincerità e coraggio, per mettere in salvo un fattore strutturale decisivo per la nostra stessa civiltà e il futuro che ci attende. Assommare iniziative pensando che da sole bastino a tenere viva la memoria non sembra più sufficiente e, anzi, inizia a sortire l’effetto opposto, con una neppure più tanto strisciante “impermeabilizzazione”.

Purtroppo, già sta accadendo con altre importanti giornate a tema, dalla violenza sulle donne alla mafia. Serve invece mostrare quanto ciò che è accaduto e che non deve più succedere – di questo noi e i nostri figli dovremmo essere perfettamente coscienti – si aggancia alla vita che facciamo, perché è di donne e uomini, ragazzi e bambini che la storia ci parla, e non di categorie, astrazioni, fenomeni e tendenze, per quanto esecrabili, odiose e persino blasfeme siano (e lo sono). La laica sacralità della vita di ogni singola persona umana è evidente a tutti – per quanto talora in molti modi negata – e ancora è capace di commuovere, se ci è chiaro che stiamo parlando di noi e non di un’idea da ripescare al bisogno dagli archivi digitali come un file di informazioni tra infiniti altri. Liberiamo allora le giornate (anche quelle della nostra vita di fede, che sperimentano la stessa insidia) dalla burocrazia della celebrazione fine a sé stessa e restituiamole alla vita vera, in ogni modo possibile. Il passato ci è contemporaneo se non lo recludiamo sotto la teca di un museo consegnandolo a una periodica e sempre più abitudinaria visita guidata. La memoria ci appartiene come ciò che ci costituisce nel profondo, identità e valori, consapevolezza e senso comunitario. Guai a chi la lascia arrugginire come un cimelio muto e noioso.

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