Nel motore dell'Unione
martedì 8 febbraio 2022

l 7 febbraio 1992 a Maastricht veniva firmato il Trattato sull’Unione Europea, grazie al contributo determinante della delegazione italiana guidata da Giulio Andreotti e Guido Carli. Il semestre di presidenza italiana dell’allora Cee fu cruciale. Nel Trattato confluivano gli ideali professati già nella prima metà del Novecento da Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, secondo cui i singoli Stati avrebbero dovuto mantenere la propria identità accettando tuttavia di restringere la sovranità nazionale nei campi della difesa e della moneta.

Il merito storico di quella firma va ascritto a Helmut Kohl, François Mitterrand e Giulio Andreotti. In particolare, il ruolo di quest’ultimo fu decisivo. Ricorda Guido Carli che il nostro presidente del Consiglio presiedeva la seduta plenaria conclusiva e aveva il compito di leggere il testo definitivo del comunicato, che recitava: «Una moneta comune, l’Ecu».

Andreotti lesse: «Una moneta unica, l’Ecu». Fu il ministro degli esteri belga a dire timidamente: «Ma qui c’è scritto moneta comune». Andreotti rispose: «Ho detto moneta unica», e tirò avanti mentre il cancelliere Kohl annuiva soddisfatto. Nei mesi di trattativa, Andreotti e Carli riuscirono a recare un beneficio evidente alla saldezza dell’edificio europeo, salvaguardando gli interessi nazionali, costantemente ispirati dai princìpi dei padri fondatori.

La delegazione italiana durante il negoziato rifiutò la concezione secondo la quale l’analisi sullo stato di salute della finanza pubblica di un Paese avvenisse in base a un riscontro di quantità determinate rispetto al Pil in un dato momento di tempo. A questa impostazione si deve l’accento posto sulle linee tendenziali verso il raggiungimento dei parametri recepito nel Trattato, in contrapposizione alla visione tedesca. D’altra parte, se non bisogna cadere nell’errore di credere che criteri di convergenza dinamici equivalgano a consentire politiche di bilancio lassiste e irresponsabili, allo stesso modo è difficile accettare con animo leggero che l’obiettivo della stabilità sia perseguito senza alcun riferimento al livello occupazionale e dunque al benessere reale dei cittadini e allo spirito di progresso che dalla sua origine ha animato l’Europa.

Dopo i successi conseguiti tra 1957 ( Trattati di Roma) e 1992 ( Trattato di Maastricht), con il contributo decisivo dei nostri governi, lunghi anni di afonia italiana non hanno giovato alla costruzione europea, che ha perduto smalto e rischiato di tradire gli stessi princìpi su cui era stata fondata.

Oggi, dopo due anni terribili di pandemia e la sospensione dei vincoli comunitari più stringenti introdotti negli anni successivi a Maastricht, abbiamo davanti una grande sfida: recuperare i valori originari e lo spirito cooperativo dell’Unione in virtù dei quali i popoli europei hanno potuto prosperare negli anni d’oro del Vecchio Continente. In questa prospettiva, l’Italia ha il dovere di esprimere una visione alta nella discussione sulla riscrittura delle regole di bilancio Ue, che è in corso. Tornare alle regole che hanno contenuto nell’intorno dell’1% la crescita dell’economia europea tra 2000 e 2019 sarebbe un grave errore.

Occorre agire almeno su tre fronti. Il rapporto debito-Pil deve ridursi con una velocità inferiore a quella stabilita nel 2011. Maastricht insegna: conta la tendenza, non la ragionieristica adesione a una soglia. Il vincolo di bilancio deve riguardare soltanto le uscite e le entrate di parte corrente, recuperando l’impostazione promossa senza successo dalla delegazione italiana a Maastricht. Gli investimenti, che si autofinanziano, devono essere esclusi dal computo dei parametri.

Riportare lo sviluppo civile, sociale, economico al centro dei disegni europei è possibile. Mario Draghi ha vissuto in prima persona la parte finale del negoziato di Maastricht, collaborando con il ministro del Tesoro Guido Carli: sta a lui attingere da quell’insegnamento e provare a restituire all’Italia la dignità e il ruolo co-propulsivo che la storia le assegna in Europa

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