martedì 25 maggio 2010
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Caro direttore,le chiamano "morti bianche", come avvenissero senza sangue. Le chiamano "morti bianche", perché l’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’accaduto, invece la mano responsabile c’è sempre, più di una. Le chiamano "morti bianche", come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano "morti bianche", ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica. Le chiamano "morti bianche" per farle sembrare candide, immacolate, innocenti. Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, sì e no una citazione nel telegiornale. Le chiamano "morti bianche", per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano "morti bianche", bianche come il silenzio, come l’indifferenza che si portano dietro. Le chiamano "morti bianche", ma non sono incidenti, dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Le chiamano "morti bianche", un modo di dire beffardo, per delle morti che più sporche di così non possono essere. Le chiamano "morti bianche", ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto. Le chiamano "morti bianche", ma sono tragedie inaccettabili per una Paese che si definisce civile, che non può permettersi di avere tutte queste morti sul lavoro. Le chiamano "morti bianche", ma in realtà sono nere, non solo perché ogni morte è "nera" ma perché spesso, quasi sempre, le vittime non risultano nemmeno nei libri paga dei loro "padroni": padroni della loro vita. E della loro morte. Le chiamano "morti bianche", un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano "morti bianche", ma quanto tempo passerà ancora perché vengano chiamate con il loro vero nome?

Marco Bazzoni, Firenze operaio metalmeccanico

Partecipo sino in fondo, caro signor Bazzoni, alla sua indignazione, alla sua angoscia e al suo dolore. Lei sa bene quanto Avvenire sia, da sempre, attento e vigile sulla frontiera cruciale della piena tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro. E sa altrettanto bene quanto, da sempre, sia discusso l’uso dell’aggettivo "bianca" per contraddistinguere la insopportabile realtà della morte in fabbrica, in cantiere, nei campi o in qualunque altra situazione lavorativa. Con passione e intelligenza, qui accanto, sciorina tutti i tristi colori che dovrebbero accompagnarla. Ma in effetti il bianco è la sintesi di tutti i colori dell’iride. È un tutto pieno che parla anche del vuoto. Io vorrei, allora, che quell’aggettivo evocasse non solo e non tanto la «mancanza di una mano direttamente responsabile» di morte, bensì la pagina vuota – bianca, appunto – che dovremo tutti insieme arrivare a scrivere – anzi, a non scrivere – stilando il tragico bilancio dei caduti sul lavoro. In troppi casi vittime di puri e semplice omicidi: assassinii da noncuranza del valore fondamentale della vita umana. Se è, poi, vero che il bianco in molte culture è il colore del lutto, per gli italiani è un colore indissolubilmente legato all’idea del futuro e della speranza. E noi, gentile amico, da cristiani sappiamo che la speranza non è mai mera attesa, ma è la luce che ci sta davanti anche quando tutto appare oscuro, il cammino da fare mettendo in campo le nostre energie e la nostra ragione, il traguardo al quale puntare con convinzione. Il bianco, per noi, non può mai essere il colore della resa.
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