mercoledì 30 giugno 2010
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Morire di super-lavoro a Napoli. E se succede tra le corsie di un ospedale, dove la «malasanità» riesce sempre a trovare ricovero, e la vittima non è tra i pazienti ma tra i «camici bianchi», ecco venir meno tutti i parametri ordinari, sempre pronti e allineati per replicare, ogni volta che occorre, il «cliché» di una città fatta a suo modo, e che proprio non vuol saperne di stare alle regole: neppure a quelle che si è cucita addosso da sola, e che la rendono pressocché unica, con la sua storia e le sue piccole e grandi vicende cosparse sempre di punti esclamativi.A suo modo, neppure il professore Filippo Minieri, chirurgo vascolare, 60 anni, ha voluto saperne di stare alle regole. È morto fulminato da un infarto sul proprio luogo di lavoro, il «Cardarelli», l’ospedale più grande di tutto il Mezzogiorno, e – proprio per questo – inevitabile bacino di accoglienza dei ritardi e delle inadempienze di una sanità che, particolarmente in Campania, è vicina al tracollo.Il professor Minieri è rimasto per undici ore di fila al lavoro. Un chirurgo non può certo badare all’orologio, ma neppure è immune dai limiti dello stress e della fatica che, infatti, gli sono stati fatali. A suo modo – se visto da un particolare punto di osservazione – anche questo sacrificio può essere catalogato tra i casi di «malasanità». L’organizzazione del lavoro è parte integrante del buon funzionamento di ogni nosocomio. Nel tragico caso di Minieri, qualcosa evidentemente non ha funzionato. L’Ordine dei Medici, protestando per i turni di lavoro, definiti massacranti, ha parlato di «morte bianca».Posta semplicemente così, la vicenda servirebbe solo ad alimentare il fuoco delle polemiche sulla disastrata sanità del Mezzogiorno e della Campania in particolare. Il sacrificio del professor Minieri significa invece qualcosa in più e impone di puntare lo sguardo al di là dell’efficienza delle strutture – obiettivo, tuttavia, da perseguire senza soste e tentennamenti. Il chirurgo napoletano non è incappato nella morsa della disorganizzazione, che pure gli si è stretta intorno: con qualche «accortezza» poteva forse evitarla, o tenersene al riparo.È stata però di altro tipo la morsa dalla quale non ha potuto – e voluto – sottrarsi: quella di un altruismo e di una generosità che, nella professione medica, valgono ancora più degli utensili del mestiere. Il bisturi incide nella carne. Un medico che si dà senza risparmio ai suoi pazienti è il «samaritano» che continua a passare ancora oggi accanto a ogni sofferenza.Sarà difficile che un piano sanitario possa contemplare, tra i legittimi vincoli sindacali, anche situazioni estreme come quelle del professor Minieri, morto di superlavoro al «Cardarelli» di Napoli, nell’affanno di concitate rincorse tra sala operatoria, reparto e ambulatori.Ma si è di fronte a una vicenda tanto tragica quanto emblematica, nel senso delle sfide che pone e dei luoghi comuni che ribalta, pur nella patria delle contraddizioni che resta Napoli. Dov’è possibile morire di «superlavoro». Ma in realtà la diagnosi è da correggere: il «referto» parla di forti sintomi di generosità e di dedizione. A Napoli non è merce in via d’estinzione. Ed è anzi sparsa sul territorio senza forme di particolare distinzione.Anche una morte in ospedale, in una città così, può dar luogo a un’impensata variazione sul tema: si resta in bilico sulla «malasanità», ma da un orizzonte pur confuso spunta tutt’altro. Un chirurgo che tocca il cuore. E senza mettere mano al bisturi.
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