mercoledì 2 novembre 2011
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Guardiamo alla drammatica situazione dell’economia e dei mercati finanziari con realismo. Siamo di fronte a una crisi globale del sistema capitalistico; esattamente come si verificò fra l’autunno del 1929 (altro "ottobre nero", nei libri di storia) e la metà degli anni Trenta, marchiata dalle dittature e dal riarmo sfociati nella seconda guerra mondiale. Con arroganza paragonabile a quella dei costruttori della Torre di Babele che pretendevano di toccare il cielo, i cantori del capitalismo avevano promesso una crescita ininterrotta. Illimitata ed egoistica, poiché dimentica delle condizioni di miliardi di esseri umani che popolano le aree sottosviluppate.I nodi, inesorabilmente, sono venuti al pettine. E ogni volta s’è tentato di curare la malattia (esasperato consumismo, giganteschi debiti pubblici degli Stati sovrani e delle società private) con pannicelli caldi e formule tecnocratiche sfornate dagli alchimisti della finanza. Non ha funzionato, perché ben diversa avrebbe dovuto essere la diagnosi e di conseguenza la cura. Cominciando con l’ammettere che l’emisfero capitalistico vive al di sopra delle proprie possibilità. Ne è derivata una incontenibile corsa all’indebitamento che coinvolge un po’ tutti.Legioni di alchimisti spalleggiati da politici sempre preoccupati dalla scadenza elettorale prossima ventura (ma in democrazia, si vota continuamente!) hanno alimentato la leggenda di miracoloso formule, di volta in volta partorite dai cervelloni della Federal Reserve, del Fondo Monetario, della Banca Centrale Europea e dal susseguirsi di incontri al vertice (ultimo in ordine di tempo, il G20 che comincia domani a Cannes).Esistono soluzioni efficaci o si dovrà ricorrere a un’impietosa chirurgia? Detto altrimenti, a un radicale ridimensionamento del nostro tenore di vita. Senza mai dimenticare che non è il denaro ma il lavoro a produrre ricchezza. Ancora domenica scorsa i potenti del sistema (Obama, Cameron, Merkel e Sarkozy, più defilati Putin e la Cina) ritenevano di avere domato la belva, incapsulandola in una rete di prestiti. Stampando dollari, euro, yen, sterline cartacee a pieno ritmo, incuranti dei pericoli inflazionistici.È però sempre un sassolino a originare una valanga. A smuoverlo, il premier greco Papandreou. La Grecia venne ammessa all’euro nonostante i suoi conti pubblici fossero palesemente falsificati. Intendeva redimersi, e non lo ha fatto. Papandreou, mendicando fra le quinte dell’alta finanza, aveva ottenuto prestiti; ora d’un colpo e inaspettata, la decisione di sottomettere le misure d’austerità a un referendum popolare con una probabilissima bocciatura. Trauma generale, crollo delle Borse (quella italiana è fra le peggiori, ma non più di tanto), anatemi dell’establishment nei confronti del leader ateniese. C’è un interrogativo provocatorio: non sarebbe piuttosto il caso di ringraziarlo per avere scoperto le carte truccate, mettendo il G20 con le spalle al muro e di fronte alle sue responsabilità? Non sembri allora "fantafinanza" abbozzare un’ipotesi che da tempo ha cittadinanza negli ambienti del banking internazionale: salvare la Grecia per evitare l’esplosione di una crisi a effetto domino.
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