martedì 10 dicembre 2013
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Caro direttore,le scrivo a proposito della recensione di Mirella Poggialini al programma "Mission" ("Avvenire" del 7 dicembre), la cui prima puntata è stata trasmessa su Rai1 il 4 dicembre. La frase conclusiva ne riassume bene il pensiero al riguardo: «Una delusione, insomma: mentre chi ha seguito il programma sino alla fine ha sperato che ne uscissero più sprazzi di autenticità, momenti di vitale, umano e paritario rapporto, con semplicità e senza retorica». Io credo sia un giudizio eccessivamente ingeneroso. A mio avviso si tratta invece di una trasmissione credibile, ben congegnata e ben realizzata. "Mission" non indugia sulla sofferenza per dare spettacolo (e che non sia un reality lo dice già il fatto che si risolva in due puntate); al contrario, mostra situazioni reali di disagio e sofferenza, comunque lontanissime e impensabili per noi che stiamo "di qua", nel mondo che è ancora del benessere. Scene e situazioni, quelle viste nei campi profughi, che diversamente (...ed è questo forse andava maggiormente sottolineato) mai sarebbero potute entrare in quella fascia del palinsesto e quindi nelle case di tanti italiani. Chiaro che sia una scommessa. Che poi molti telespettatori abbiano scelto diversamente è un altro discorso; anche perché, se chiamiamo a giustificazione della presunta «mancata riuscita» il basso share, neppure dovremmo ironizzare poi sul panama bianco di Al Bano o altri simili (piccoli) escamotage: è ovvio che il pubblico tenda a prediligere le situazioni "leggere"; è ovvio anche che si tratti di un compromesso tra la televisione che intende documentare situazioni vere e l’esigenza di suscitare interesse nello spettatore trattenendolo dinanzi allo schermo: siamo in prima serata. Un equilibrio tanto più difficile in questo caso, che aveva visto polemiche preventive (anch’esse rivelatesi fuori luogo). Concludo dicendo che nella quasi totalità dei casi (ricordo per esempio le opinioni su "Tale e quale show", "Pechino Express"...) mi trovo in sintonia coi giudizi di Mirella Poggialini, una professionista di cui ho grande stima. In questo caso, ho come l’impressione che si sia lasciata prendere dalla "sindrome del Critico" che finisce per "dover" obiettare anche senza oggettiva necessità. Sarà questione di punti di vista; sarà che io stavolta ci ho visto il bicchiere mezzo pieno... Per me, considerando l’andazzo generale dell’offerta televisiva, questo è un inizio più che buono. Ritengo che di tanto in tanto – e specie di questi tempi – pensare positivo non guasti.Matteo GelminiSono anch’io del "club del bicchiere mezzo pieno", caro signor Gelmini. E sono sicuro che lei lo sa bene. Ciò nonostante difendo il parere su "Mission" di Mirella Poggialini, che – posso testimoniarlo – ha analizzato la trasmissione senza pregiudizi e ha tirato, come sempre, conclusioni chiare e competenti. Non condivise o condivisibili in tutto o in parte? E ci mancherebbe... Nessuno di noi è infallibile. Ma neanche la Rai. E se è vero che Rai1 ha fatto una scelta importante e coraggiosa, la nostra ottima collega non ha certo peccato di ingenerosità nel sottolineare le "mancanze" di un programma che – ne abbiamo dato ampio conto – ha anche colpito positivamente tanti italiani. Lo spirito che anima la critica di Poggialini – e io soprattutto questo, in essa, ho trovato – mi sembra un appello a Rai1. Una specie di "Ritenta, sarai più efficace", che largamente condivido. La strada che porta un grande pubblico a "vedere" la realtà dei campi profughi è buona, ma si può e si deve continuarla in modo diverso. Perché si può ragionevolmente riempirla in modo diverso. Cioè, per intenderci, non solo di battistrada "Vip", ma anche di staffette ideali di noi tutti, gente comune. Cioè di persone portatrici delle idee (generose o arruffate, dure o fragili, egoiste o emozionate) della gente comune e come tanta gente comune capaci di cambiare avviso o, magari, soprattutto, di irrobustire la propria solidarietà. Non penso, insomma, di escludere i "volti noti" e i loro "occhi", ma mi chiedo chi abbia mai stabilito che bisogna limitarsi solo e soltanto a questi. Sì, caro amico, anche stavolta vedo il "bicchiere mezzo pieno". E non rinuncio a sperare e a spendere parole d’Avvenire – ovvero dei miei colleghi e mie – perché si riempia del tutto, o quasi. Anche le sue parole, credo, spingono in questo senso.
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