mercoledì 27 marzo 2019
Dai Balcani alle Repubbliche baltiche gli Stati alzano barriere difensive come ai tempi della Guerra Fredda Ma oggi il «nemico» sono i più deboli
Sono ben più di mille i chilometri di recinzioni costruite. A dare nuovo impulso a questo fenomeno è stata l’emergenza migranti, che però rappresenta solo una scusa per nascondere motivazioni di ben altro tipo L’Ue non è stata in grado di rispondere a un evento epocale in nome di quei valori di solidarietà e rispetto dei diritti fondamentali su cui è nata

Sono ben più di mille i chilometri di recinzioni costruite. A dare nuovo impulso a questo fenomeno è stata l’emergenza migranti, che però rappresenta solo una scusa per nascondere motivazioni di ben altro tipo L’Ue non è stata in grado di rispondere a un evento epocale in nome di quei valori di solidarietà e rispetto dei diritti fondamentali su cui è nata

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Segnano confini, marcano differenze, ingigantiscono paure, rievocano un passato di guerra e dolore. Sono i muri che, dentro e ai confini dell’Europa, accompagnano il Vecchio Continente, e non solo, verso un futuro fatto di incertezza e conflitti. Barriere costruite ufficialmente per proteggere popoli e nazioni, che fanno voltare le spalle ai più poveri e ai più deboli e spesso celano fratture mai ricomposte.

In Europa sono ben più di mille ormai i chilometri di recinzioni costruite. A dare nuovo impulso a questo fenomeno, che non accenna a diminuire, è stata l’emergenza migranti, che però rappresenta solo una scusa per nascondere motivazioni di ben altro tipo.

I Balcani e parte dell’Europa Centrale sono ormai costellati da recinzioni che stanno trasformando i singoli Stati in fortini. A iniziare è stata la Grecia, che nel 2013 costruì un muro al confine con la Turchia per impedire l’afflusso di rifugiati provenienti dall'orrore della guerra civile in Siria e che, su 160 chilometri, ne copre meno di 15, perché il resto della frontiera è costituito dal fiume Evros, dove in decine sono morti annegati per accarezzare il sogno di una vita libera e in pace.

L’Ungheria di Viktor Orban è diventata la rappresentazione dello stato sovranista e dell’identità nazionale più deleteria. Budapest da sola, ha costruito oltre 450 chilometri di recinzione: un doppio muro anti migranti al confine con la Serbia e uno lungo la frontiera con la Croazia per evitare che i rifugiati passino da lì. Una posizione estrema, che di fatto impedisce la richiesta di asilo politico e che ha scatenato un vero e proprio effetto domino. Persino la Slovenia, un Paese i cui paesaggi fiabeschi evocano atmosfere di pace e quiete, ha voluto il suo muro per difendere "la sovranità nazionale e la sicurezza pubblica" e tutelarsi "dall'invasione dell’islam". Una mossa che ha costretto Vienna a erigere una barriera di 330 chilometri al confine con l’ex Stato iugoslavo, più o meno per gli stessi motivi. Segno di un’Unione Europea che non è stata in grado di rispondere a un evento epocale, in nome di quei valori di solidarietà e rispetto dei diritti fondamentali su cui è nata. Ma in alcuni Paesi sembra si aspettasse solo un motivo concreto per prendere le distanze da vicini troppo ingombranti.

È il caso della Bulgaria, che nel 2017, quindi più tardi rispetto ad altri Paesi, ha concluso il muro da 240 chilometri al confine con la Turchia, al quale, in occasione delle ultime elezioni, oltre alla barriera di filo spinato, si è aggiunta anche quella umana. Decine di appartenenti a formazioni nazionaliste, hanno presidiato l’ingresso del Paese con cartelli che recavano la scritta "giù le mani dalla Bulgaria", cercando di impedire l’ingresso ai turchi con passaporto bulgaro che volevano andare a votare. L’accusa nei confronti di Ankara era quella di influire sulle vicende politiche interne per minare la sovranità nazionale. Una convinzione radicata in gran parte dell’elettorato bulgaro, insieme con la certezza di essere un popolo superiore rispetto a quelli dei Paesi limitrofi, come ha evidenziato un sondaggio condotto nei giorni precedenti al voto, secondo il quale il 90% degli intervistati si riteneva diverso, inteso come migliore, rispetto alle popolazioni confinanti.

Proprio alle frontiere di quella che dovrebbe essere l’Unione Europea di domani, sorge uno dei muri più lunghi e imponenti. Si tratta di quello che divide la Turchia dalla Siria. Una recinzione di 764 chilometri, destinati a diventare 911, nata ufficialmente per proteggere dai gruppi terroristici jihadisti e separatisti. Il muro è costruito in muratura, alto 3 metri, sormontato da coltri di filo spinato. Ci sono sistemi di sorveglianza ravvicinata, telecamere termiche, radar di sorveglianza terrestre e sistemi di armi telecomandate. Le aree più estese sono controllate da radar per il rilevamento di droni. Il tutto, più che per proteggere dalla minaccia dello Stato Islamico, è stato fatto per impedire ai curdi che vivono nel nord del Paese di entrare in Turchia, non importa se questi siano realmente affiliati al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, o meno. Il tutto nel silenzio, o secondo alcuni, peggio ancora, con l’aiuto dell’Ue. Secondo Der Spiegel, Bruxelles ha assicurato ad Ankara 80 milioni di euro di tecnologie per la sicurezza e la sorveglianza, in cambio del controllo rigoroso dei suoi confini. Di questi, 36 milioni di euro sarebbero finiti nel programma di sviluppo regionale IPA che ha costruito veicoli blindati attualmente utilizzati sulla frontiera siriana. Si tratta di un’ulteriore prezzo da pagare per l’accordo sui migranti stipulato da Ue e Turchia nel 2016. Ankara, così, può controllare i suoi confini certa di non ricevere pressioni dalla comunità internazionale per motivi umanitari.

Ma i muri servono anche a dividere l’Europa da quello che Europa non sarà mai. Le repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, hanno costruito 336 chilometri di recinzione con la Russia, che diventeranno 526 entro il 2019. La motivazione ufficiale, ancora una volta, sono le persone che cercano una vita migliore. Siriani, afghani e iracheni, che decidono di passare il Mar Nero e di attraversare steppe e taighe, i cui flussi però sono molto scarsi e non giustificano un investimento del genere. Ci sono, questo è il vero problema, anche tanti russi, che accarezzano il sogno di quella libertà, dalla quale a volte sono nati solo a pochi chilometri di distanza, e vedono quei territori come luoghi a cui li accomuna un passato di dolore.

Il fatto, è che le Repubbliche Baltiche del loro passato non vogliono più sapere nulla. Per questo, i muri costruiti al confine con la Russia sono più recinzioni ideologiche, che vanno a dividere, e contrapporre, quel che resta dell’ex Urss da una parte e la Nato e la Ue dall’altra. Una vera e propria guerra fredda, che, scorrendo la carta geografica, ricompare anche qualche centinaio di chilometri più a sud, per la precisione al confine fra Ucraina e Russia, dove Kiev ha fatto costruire una barriera di 2.300 chilometri in caso di un nuovo conflitto militare. Mosca ha pensato bene di ricambiare il favore, fortificando il confine fra Ucraina e Crimea, 60 chilometri di filo spinato, per ricordare che quel territorio dal 2014, dopo il referendum per staccarsi da Kiev e l’auto proclamazione di indipendenza della penisola, è tornato russo per sempre. Il tutto, con buona pace della comunità internazionale, che lo considera ancora ucraino. A volte, i muri, servono a ricordare che la Storia da alcune parti si ripete.


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