martedì 8 luglio 2014
In 700mila «legati» a un padrone. Ma oggi hanno un difensore.
di Gilberto Mastromatteo
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«Biram president des esclaves!». «Biram presidente degli schiavi», si legge ormai da mesi sulle pareti del rione Riadh, uno dei più poveri di Nouakchott. Brandelli di una campagna elettorale che, lo scorso 21 giugno, ha consegnato alla Mauritania un plebiscito prevedibile. Confermato, con l’82 per cento dei voti, il capo dello Stato Mohamed Ould Abdel Aziz, giunto a guidare il Paese dopo l’ennesimo golpe militare, l’8 agosto del 2008. Ma alle sue spalle, nella corsa a quattro per la presidenza, si è classificato un outsider che, con il suo scarso 10 per cento di consensi, rischia di fare parecchio rumore. Si chiama Biram Dah Abeid e ha la pelle nera. «È un haratine, un discendente di schiavi. È il nostro Nelson Mandela», garantisce Brahim, un giovane ex "abd" che ha deciso di rompere le catene in un Paese dove, benché abolita per legge da oltre trent’anni, la schiavitù è ancora una realtà.Su 3 milioni e mezzo di abitanti, si calcola che siano ancora 700mila le persone costrette a vivere almeno parzialmente alle dipendenze di un padrone. Il 20 per cento della popolazione. Di queste, circa 100mila sono in totale asservimento. «Biram è un difensore infaticabile del diritto di tutti gli uomini ad essere liberi e uguali – spiega Brahim, mentre si aggira tra mosche e bestiame, per le vie sabbiose della Capitale –, se tutti i neri di Mauritania potessero votare, sarebbe già presidente». In pochi anni, da militante pressoché sconosciuto della storica organizzazione Sos Esclaves, Abeid è diventato un leader carismatico, fondatore e presidente dell’Ira (Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste), tra le associazioni abolizioniste più attive. Sulla sua figura, la nazione si è spaccata. Da una parte gli abd (gli schiavi neri) o haratine (gli schiavi liberati), che hanno origine affine alle etnie native dei wolof, dei soninke e dei bambara. Dall’altra i cosiddetti bidanes (letteralmente, "i bianchi"), discendenti delle tribù arabe e berbere del nord, cui si è integrata la cospicua diaspora dei saharawi. Sono essi a comporre la classe dirigente politica, economica e militare del Paese. «Oggi bidanes e haratine sono una nazione – spiega padre Gerome Otitoyomi Dukiya, curato nigeriano dell’unica chiesa cattolica di Nouadhibou, nel nord del Paese – parlano tutti l’arabo hassaniya e sono musulmani. Ma la pratica della schiavitù resta nella cultura, come un’eredità che passa da una generazione all’altra. Gli schiavi, in massima parte analfabeti, la accettano come una condizione di nascita, credendo alla lettura coranica che gli viene propinata e che li vuole ricompensati in paradiso, dopo la morte». Gerome ci fa strada nella sacrestia della piccola parrocchia di Nostra Signora di Mauritania, gestita dalla Congregazione dello Spirito Santo. Una lunga scalinata che culmina in una piccola cupola. Con lui c’è George, un migrante liberiano. Bisbiglia alcuni aneddoti che, manco a dirlo, hanno come protagonista Biram Abeid. «Nel 2012 è stato messo in galera – racconta – diede fuoco pubblicamente ad alcuni libri di giureconsulti di rito malechita. Presunte pagine di Corano, mediante le quali venivano indottrinati gli schiavi ad essere fieri della loro condizione». Un atto che ha avuto del sensazionale nella osservante Repubblica di Mauritania, una delle quattro al mondo a definirsi "islamica", assieme ad Afghanistan, Iran e Pakistan. «Noi ci occupiamo principalmente dell’assistenza spirituale ai cristiani che lavorano qui – spiega padre Bernard Pellettier, missionario francese di 80 anni, molti dei quali trascorsi tra Nouakchott, Rosso e Nouadhibou – in particolare la nutrita comunità migrante che proviene dall’Africa sub-sahariana: senegalesi, nigeriani, ivoriani. Tra il 2005 e il 2006 si imbarcavano da Nouadhibou verso le Canarie, a migliaia. Molti non sono mai arrivati». Oggi i migranti lavorano per lo più nell’edilizia e nella pesca. Il vero oro della rampante Mauritania, forse ancor più del ferro scavato nei giacimenti di Zouerat. «Cerchiamo di tenerli uniti e attivi – spiega padre Gerome – organizziamo tombole, eventi sportivi e corsi di lingue. Gestiamo una biblioteca e altre strutture. Abbiamo anche una pagina Facebook». Difficile, invece, occuparsi di coloro che restano invischiati nella rete della schiavitù. «Gli schiavi sono musulmani – osserva George, che di mestiere fa l’imbianchino – e in questo Paese il rischio più rilevante per un cristiano è quello del proselitismo. È un reato. Cerchiamo di fare del nostro meglio per dare una mano a chi ne ha bisogno. Questo è il precetto cristiano. Ma dobbiamo farlo con molta cautela, per evitare problemi». In Mauritania la base della legge è la sharia e chi si converte al cristianesimo rischia la pena di morte. O di venire linciato dalla sua stessa famiglia, come accadde quattro anni fa ad una giovane donna. Nel 2009 ad essere ucciso da alcuni fondamentalisti era stato l’insegnante americano Chris Leggett, per la sua presunta attività di evangelizzazione. Il territorio è ancora interessato dai movimenti di ciò che resta di Al Qaeda Maghreb Islamico e del Mujao, il Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa Occidentale, guidato dal tuareg mauritano Ahmed Ould Amer "Telmissi". «Mettere il naso in un affare come quello dello schiavismo verrebbe visto come un’ingerenza inaccettabile – ancora George – io sono liberiano, il mio Paese è stato fondato da schiavi neri americani che volevano essere liberi in Africa. È quasi incredibile che qualche centinaio di chilometri più a nord possa accadere questo».Eppure, non mancano i bianchi "pentiti", come Abdel, che un giorno ha deciso di liberare i suoi, di schiavi: «Quando ho comunicato loro la mia decisione – racconta – mi hanno guardato spaventati. Non volevano essere liberi, perché non sapevano cosa fosse la libertà. Per tutta la vita avevano vissuto servendo me e la mia famiglia». Oggi, lui che è un bidane, lavora per Sos Esclaves, tentando di sensibilizzare gli abd, di istruirli sulla loro condizione, di emanciparli. Ma il lavoro è perennemente osteggiato dalle autorità. «Subiamo discriminazioni e minacce – ancora Abdel – ma a vedersela peggio sono le donne. Gli aborti sono all’ordine del giorno». Il caso più emblematico nel 2010, quando la schiava Moulkheir Mint Yarba denunciò alla magistratura mauritana il suo padrone, colpevole di averla violentata e di aver poi ucciso la figlia nata da quei rapporti. Poco dopo è stata la volta dei fratellini Said e Yarg, anch’essi liberati per iniziativa degli abolizionisti, contro i cui padroni si è ottenuta la prima condanna pronunciata da un tribunale mauritano per il delitto di pratiche schiaviste. «Per cambiare la mentalità dei mauritani serviranno anni – dice Brahim – forse decenni. Solo un presidente haratine potrebbe farlo. Ogni analogia con il resto dei Paesi del nord Africa è azzardata». Il riferimento è a quella "primavera mauritana", che pure aveva mostrato qualche accenno di opposizione al regime di Abdel Aziz, nel 2011. «Anche in questo caso chi protestava aveva la pelle bianca – afferma – la politica ci ha messo poco a corromperli e zittirli, in cambio di favori economici e cariche. Sono morti della stessa malattia che cercavano di combattere, la corruzione. Noi haratine neri costituiamo il 60 per cento della popolazione del Paese. Un giorno, non lontano, lo governeremo».
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