lunedì 9 novembre 2015
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Caro direttore,
l’editoria cattolica sta navigando in acque tempestose e non possiamo continuare a fare finta di niente. Il fenomeno riguarda i piccoli e i grandi editori. Sia chiaro, la crisi non è solo italiana, come testimoniano i dati di vendita dei prodotti cartacei negli Stati Uniti e in Europa. La riduzione annua delle vendite di tali prodotti si può valutare attorno al 10% su base annua. In Italia, purtroppo, stiamo peggio e la progressiva riduzione dei contributi all’editoria da parte governativa – che prima o poi scompariranno del tutto – rende lo scenario complessivo inquietante. Se a ciò aggiungiamo la sottrazione delle grandi firme del cattolicesimo – papi e teologi compresi – operata dai colossi dell’editoria commerciale, c’è davvero da mettersi le mani nei capelli. Coloro che sono ai vertici di queste aziende editoriali, d’altronde, hanno fiuto. Hanno capito che il mercato del comparto spiritualità-esoterismo-teologia “tira” da morire e, dunque, hanno invaso il mercato con prodotti grand public, accessibili attraverso la loro grande distribuzione.
 
A questo punto è bene essere franchi. Possiamo accettare l’inevitabile scomparsa di voci autorevoli in un momento in cui la Chiesa Cattolica, sotto la guida di papa Francesco, è impegnata nel contrastare il pensiero debole della società post-moderna? È ammissibile che le società editoriali di matrice cattolica continuino a sbarcare il lunario (quando ci riescono) tagliando i costi di spesa in modo lineare e assecondando la regola ragionieristica del rapporto “costi-benefici”, ma dimenticando che senza investimenti non è possibile alcuna innovazione? Come se non bastasse, le proprietà che si celano dietro l’editoria cattolica – poco importa che si tratti di religiosi, enti ecclesiastici o movimenti ecclesiali – sono troppo spesso rinchiusi nel proprio hortus conclusus sperando di salvare l’ispirazione del proprio carisma o della propria mission in attesa di tempi migliori.
Possiamo mai fare il verso all’editoria laica giocando su temi scandalistici e pruriginosi? Forse sarebbe ora di ragionare in modo davvero communionale, sapendo bene che come cattolici siamo tutti sulla stessa barca. Forse mai come oggi è necessario operare un sano discernimento nella consapevolezza che, come cattolici, disponiamo di prodotti spesso eccellenti espressi dai diversi carismi e altre espressioni della società civile cattolica. Perché, allora, non avviare partenariati a tutti i livelli, anche fuori dalla Chiesa? Perché non rispondere alla crisi della carta integrando il Web in operazioni condivise tra diversi soggetti? Non possiamo più permetterci di stare alla finestra a guardare se crediamo davvero nella cultura. Altrimenti continueremo ad assistere alla liquidazione d’intere redazioni (in Italia, giusto per fare esempi: 30Giorni, Popoli, il Regno, la Rivista di teologia morale, la rivista Ad Gentes...) o alla riduzione di personale, tirature, periodicità e foliazione (praticamente tutti)…
 
Qualcuno ha fatto la scelta di passare esclusivamente al regime internettiano, senza la mediazione di carta e inchiostro. Francamente, a chi scrive, pare esagerato anche perché è stato dimostrato che il mercato offre ancora molti spazi alle pubblicazioni tradizionali, senza nulla togliere al valore aggiunto del digitale. Forse sarebbe ora di convocare degli Stati generali dell’editoria cattolica, guardando anche al percorso che si apre, da domani, con il Convegno ecclesiale di Firenze. Occorre mettersi attorno a un tavolo, rapidamente, per analizzare il futuro che si apre dinanzi a noi in spirito certamente di ascolto (è la base) ma anche di comunione (è la vocazione cristiana), in spirito evangelico, “amando il giornale o il libro altrui come il proprio”. Per trovare soluzioni condivise in cui la rinuncia a una parte del proprio modo di fare e di scrivere, e anche del proprio capitale di risorse, possa aprire nuovi spazi di creatività.
 
Anche la stampa cattolica ha bisogno di start up, di innovazione! Preservando le peculiarità di ogni soggetto, ma in spirito di unità. Non per niente il segno precipuo della cattolicità è l’unità nella molteplicità. Una cosa è certa: i tempi lunghi della Storia (con la esse maiuscola) non sono quelli brevi della storia (con la minuscola). Per carità, siamo pronti a tutto. Scompaia pure la carta, allora, ma la parola che lascia traccia resterà, in un modo o nell’altro, magari con supporti nemmeno immaginabili, come “la scrittura nell’aria” di cui qualche futurista parla già da ora, ipotizzando appunto ologrammi leggibili nell’aria. E noi dovremmo esserci. La “parola” è una delle due entità originarie della comunicazione cosciente, quella che ha superato lo stadio della semplice gestualità, l’altra essendo il “silenzio”. Ed è proprio sul silenzio che la parola s’esprime e diventa feconda. Ma ora non serve un silenzio ebete e fatalista: serve il silenzio che ci fa mettere all’ascolto dell’altro e dell’Altro, per capire verso dove andare. Insieme.
Giulio Albanese e Michele Zanzucchi
 
 
Vi sono grato, cari amici, per la consapevole urgenza di questa lettera aperta alla Chiesa e al futuro che mi avete offerto, da giornalisti e protagonisti dell’editoria cattolica, proprio alla vigilia di Firenze 2015. Mi colpisce la vostra riflessione e trovo utile mettere a tema una questione che interpella gli addetti ai lavori, ma non riguarda soltanto loro, cioè soltanto noi. Penso e dico – lo sanno bene i lettori e amici che incontro sulle pagine di “Avvenire” e in giro per l’Italia – che nel nostro Paese siano davvero tanti i portatori sani di passione e di cultura cristiana e di sguardo davvero cattolico (cioè universale) e che questo, proprio per tutti, non sia tempo di «silenzio ebete e fatalista» e neanche di sussurri o di appalti rassegnati ad altri del nostro diritto-dovere di parola. E di azione. Proprio per questo anche in campo editoriale è tempo di ricominciamento e “di uscita”: dalle secche, dalle riserve, dalle porte strette, dalle illusioni e dalle autoreferenzialità. Non ho ricette preconfezionate, ma disponibilità e convinzione della bellezza e della forza di un patrimonio di carismi, di energie e di esperienze anche editoriali e dell’importanza del nostro comune contributo al “dire” e al “fare” il Vangelo nei giorni che ci sono dati, cioè nel servizio alla comunità (che è cristiana e civile) di cui siamo parte. Mi ha felicemente aiutato a maturare l’una e l’altra, la disponibilità e la convinzione, l’essere approdato, dopo diverse esperienze professionali e umane tutte per me importanti, in un giornale che dichiara in modo aperto la propria ispirazione cattolica e che ha ricevuto da Paolo VI – colui che ha pensato, voluto e affidato “Avvenire” alla Chiesa che è Italia – un duplice e, negli anni, sempre confermato mandato: essere libero ed efficace strumento d’informazione generale con una speciale predilezione per gli ultimi agli occhi del mondo e dimostrarsi specchio affidabile della multiforme generosità umana, spirituale e per così dire territoriale del nostro cattolicesimo. Un mandato che culmina, nel felice dovere di coltivare la chiarezza e il dialogo e di servire appassionatamente l’unità dei mondi vitali del cattolicesimo italiano attorno al Papa. Uno stile semplice ed esigente e obiettivi concreti che Ersilio Tonini, custode delle parole di Paolo VI, cardinale e straordinario comunicatore, padre e amico per due generazioni di cronisti d’“Avvenire”, mi ha ricordato a più riprese sei anni fa, proprio all’inizio dell’impegno da direttore. E che l’Editore chiede a me e ai miei colleghi di perseguire. Mi ripeto anch’io ogni giorno che a questo noi serviamo. E proprio per questo, caro Giulio e caro Michele, e perché condivido il vostro spirito senza rassegnazione, metto volentieri i vostri pensieri a disposizione di tutti i lettori e dei partecipanti al Convegno ecclesiale nazionale che si apre domani a Firenze: la questione è seria e per nulla facile, anche a mio giudizio merita un posto nella “bisaccia” del necessario lungo il cammino comune.
 
 
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