sabato 6 agosto 2011
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Barconi sovrac-carichi di immigrati che per giorni e notti ondeggiano alla deriva e basta un niente per farli andare a picco. Barconi agganciati dai radar militari che poi scompaiono nel nulla. Come velieri fantasma, inghiottiti dalle nebbie di un Mediterraneo dove sembra che nessuno riesca ad accorgersi di nulla. Un mare che non vede seppure – per traffico di mercantili, pescherecci, navi da guerra e da diporto che solcano le principali rotte sulla linea Gibilterra-Suez, nord-sud, est-ovest e viceversa, in diagonale e di traverso – sia affollato 24 ore su 24 come un’autostrada a traffico continuo da triplo bollino rosso. Barconi di immigrati che viaggiano con i cadaveri nelle stive, mentre negli occhi dei loro compagni di sventura, ammonticchiati fin sopra il più alto pennone in cerca di un respiro, senza un millimetro di spazio, nemmeno per soddisfare una necessità fisica, ghiaccia il terrore di fare la stessa fine. Migranti scaraventati in mare senza pietà, bastonati a morte se si ribellano agli ordini e ai soprusi di scafisti che sono squali e mastini. E poi ancora corpi di migranti uccisi da fame e sete, dalla fatica di un viaggio cominciato dove prima del mare c’era il deserto. Ma adesso sono solo corpi spenti, lasciati scivolare dal barcone da amici, compagni di viaggio e sventura, ma anche da madri e fratelli, che così facendo seppelliscono chi muore in mare: bambini di pochi mesi, un fratello malato, una moglie che doveva partorire. Non possiamo nemmeno non immaginare cosa vedono gli occhi di chi sopravvive. Non sono funerali, come ogni essere umano che muore su una nave in mare aperto ha diritto di ricevere, dopo una preghiera, dopo una benedizione, dopo il fischio del nostromo. Non c’è tempo. Sono morti da abbandonare in quella fossa comune fatta di onde – ma quanti sono finiti laggiù in tutti questi anni? – che è diventato il Mare Nostrum, dalla Turchia al Portogallo, passando da quel piccolo "faro" spalancato all’accoglienza che è l’isola di Lampedusa. E chi sarà il prossimo da gettare in acqua? Io o tu? Perché sul barcone alla deriva bisogna liberare spazio e chi è morto è solo un fardello vuoto, inutile, un ingombro, un peso, dentro uno scafo che basta alzare un braccio per farlo capovolgere. È terribile quello che accade nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, oggi ancor di più moltiplicato da quella strana guerra a corrente alternata che gruppi di insorti libici e bombardieri sotto bandiera Nato combattono per abbattere Muammar Gheddafi. Un conflitto che mette gente in fuga da una guerra affacciato sulla grande porta meridionale di quest’Europa, che sì, a questo punto, su questo problema dell’immigrazione che cerca di salvarsi, ma che muore annegando o di bastonate, sembra proprio solo una espressione geografica che non riesce a vedere o che non vuole vedere quello che accade sulla rotta "sud 0.05° nord". Non è un’odissea, ma è un terribile e agghiacciante choc umanitario. Che si ripete, che continua a ripetersi. Un bollettino di guerra. Dove il titolo è uguale al giorno precedente: «Ennesima tragedia. Ennesima emergenza. Ennesimi morti». Quanti morti ci dovranno ancora essere perché ci accorgiamo di questo Mare nostrum, fatto di bambini, donne e uomini, che partono sempre sulla stessa rotta conosciuta da tutti? Lo fanno per desiderio di cercare una vita migliore, per scappare da una carestia in Somalia, perché nel loro Paese c’è una dittatura, o perché obbligati armi in pugno dagli aguzzini libici come «arma di massa» contro l’Europa che bombarda Tripoli. In Libia abbiamo inviato i bombardieri Nato per proteggere la popolazione civile. Perché non riusciamo a tutelare e a soccorrere chi fugge sui barconi scappando da quella stessa guerra?
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