Italia-Cina: le basi di un patto non solo commerciale
venerdì 15 marzo 2019

Il governo può ripetere all’infinito che il memorandum d’intesa che firmerà con la Cina è solo un accordo commerciale senza implicazioni politiche, ma ostinarsi a ribadirlo non rende più credibile questa rassicurazione. Il commercio internazionale non è un’attività puramente economica, ma coinvolge il rapporto tra gli Stati: più due popoli sono intrecciati tramite gli scambi commerciali, più si fa stretto anche il rapporto politico tra i loro governi. Bisogna andare d’accordo, per fare affari insieme. Quando il presidente del Consiglio, ancora lo scorso ottobre, chiedeva di superare le sanzioni europee alla Russia, nessuno pretendeva di considerare quell’appello una semplice strategia economica.

Non lo era, così come la Belt and Road Initative (Bri) non è certo un mero progetto commerciale. Non sappiamo se il ministro Luigi Di Maio, che firmerà l’intesa (presumibilmente come vicepresidente del Consiglio, non solo come ministro dello Sviluppo economico) abbia letto il discorso con cui Xi Jinping ha illustrato il senso della Bri e degli altri progetti internazionali di cooperazione economica davanti al Congresso nazionale del Partito Comunista cinese nell’ottobre del 2017. «La Cina sostiene lo sviluppo di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità, e ha incoraggiato l’evoluzione del sistema di governance globale – spiegava il presidente cinese –. Abbiamo visto l’aumento dell’influenza internazionale della Cina, della sua capacità di ispirare e del suo potere di modellare».

Pechino non nasconde che la Bri è un progetto che riguarda la governance globale, non solo il commercio. Se i ministri italiani non lo sanno è preoccupante. Se fanno finta di non saperlo è anche peggio. Raccontarla così agli americani e pretendere che a Washington ci credano, però, è assurdo. Basta seguire Donald Trump su Twitter per capire quanto il presidente sia umorale e poco propenso ai sofismi. Ad aprile Xi andrà a trovarlo nella sua residenza di Mar-a-Lago per trattare sui dazi. Se potrà sfoggiare un’ideale spilletta 'Italia primo Paese del G7 nella Bri', Trump la prenderà malissimo.

È vero che, soprattutto sulle relazioni commerciali, il presidente americano si sta comportando da nemico dell’Europa (e quindi anche dell’Italia) oltre che della Cina. Ma andare a provocarlo proprio in questo momento sembra davvero una pessima idea. In attesa che nell’audizione fissata per martedì prossimo il premier Giuseppe Conte abbia occasione di offrire ai parlamentari chiarimenti veri sui contenuti del memorandum – che sono evidentemente molto 'fluidi' – restano molti dubbi anche sulla sua bontà dell’intesa dal punto vista puramente commerciale. Sicuramente attrarre investimenti cinesi sulle infrastrutture e sviluppare migliori rapporti tra le nostre aziende e quella della Repubblica Popolare può essere positivo, almeno nel breve termine. Quando nelle imprese arrivano capitali freschi e nuovi ordini è sempre una buona notizia.

Anche su questo però non si può fingere di non sapere che la Cina ha un piano strutturato, il 'Made in China 2025', con cui si propone di conquistare la leadership mondiale in dieci settori del manifatturiero avanzato. Dietro questo piano c’è tutta la forza di un governo che amministra non democraticamente un Paese da 1,4 miliardi di abitanti e 14 mila miliardi di dollari di Pil. Alcuni di quei settori, come quello dei macchinari o del biomedicale, sono la forza dell’industria italiana: come ha confermato lo stesso sottosegretario Michele Geraci, che ha lavorato a fondo sul dossier Italia-Cina: se c’è un sistema industriale che rischia grosso davanti agli obiettivi di espansione cinese sul commercio internazionale quello è il nostro. Servirebbe insomma un po’ di sano... sovranismo.

Agevolare gli scambi con i nostri potenziali maggiori concorrenti futuri senza avere un serio progetto di politica industriale per l’Italia del prossimo decennio è un po’ come mangiarsi la gallina oggi senza sapere dove troveremo l’uovo domani. Spesso accordi di questo tipo fanno molto comodo ai governi, che portano a casa investimenti e appalti immediati, ma molto meno ai governati, che a larghissima maggioranza scoprono dopo qualche anno che per loro il bilancio costi-benefici segna una pesante perdita netta.

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