martedì 25 agosto 2015
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Si dice che a volte anche da un male può nascere un bene, per lo meno uno scatto in avanti, la capacità di correggere errori e omissioni. C’è da augurarsi che succeda proprio questo come corollario delle esequie di Vittorio Casamonica, le cui modalità fuori dalla chiesa parrocchiale di don Bosco a Roma (non è superfluo ribadirlo, quel 'fuori') hanno suscitato indignazione e polemiche praticamente in tutto il mondo. Lo scatto in avanti, in questo caso, potrebbe essere il rendersi definitivamente conto che nella Capitale la criminalità organizzata di tipo mafioso (conclamata per sentenza o riconosciuta tale per capi d’imputazione e voce popolare) ha compiuto un decisivo salto di qualità e che va perciò combattuta a ogni livello, con uno straordinario sforzo collettivo, dal quale nessuno – istituzioni, società civile, singoli cittadini, Chiesa – deve sentirsi escluso. In fondo, al di là delle spiegazioni 'tecniche' fornite ieri da Gabrielli – «la comunicazione delle informazioni dalla base non ha raggiunto i vertici» – un simile episodio, «gravissimo» (per citare lo stesso aggettivo usato dal prefetto), è potuto accadere anche perché Roma non ha ancora avuto il tempo di maturare gli 'anticorpi' necessari rispetto a un fenomeno scoperchiato nella sua reale consistenza solo pochi mesi fa. A Napoli o a Palermo, invece, quegli 'anticorpi' sono presenti da tempo e scattano sempre più puntualmente anche per impedire che le esequie di un capoclan diventino l’occasione per la sua 'famiglia' di riaffermare un potere sul territorio a dispetto di tutto e di tutti. Ora tocca a Roma. E l’obiettivo primario – ben più importante di eventuali teste che potrebbero rotolare – è proprio quello di mettere in pratica l’affermazione di principio – «mai più» – anticipata sabato dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e ripetuta ieri nella conferenza stampa seguita alla riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. Mai più anche nella Capitale d’Italia l’incredibile serie di leggerezze, disfunzioni comunicative, rimpalli di competenze, vuoti decisionali che hanno portato al triste spettacolo cui abbiamo assistito. E se è vero che i congiunti del defunto in primis e anche qualche saggia voce indipendente hanno tentato di spiegare una certa teatralità (cavalli, carrozza, petali di rose) con la tradizione dei funerali delle genti rom e sinti, è anche vero che in questo caso la vera aggravante è stata – anche di più delle note del Padrino – quell’elicottero che volteggiava sulla zona in spregio a ogni regola sul sorvolo, per lanciare qualcosa di sotto (e se non fossero stati fiori?). Al prefetto Gabrielli, specie dopo l’esplicita assunzione di responsabilità di ieri (che segue e rafforza l’identica posizione espressa a caldo in prossimità del fatto), va riconosciuta per lo meno l’onestà intellettuale, in attesa di veder trasferiti sul piano operativo i buoni propositi. Quell’onestà che invece è mancata a quanti hanno tentato di distrarre l’attenzione dall’oggettiva balbuziente presenza dello Stato per buttare la croce addosso alla buona fede di un parroco e alla Chiesa intera, 'rei' a prescindere per la celebrazione di un funerale che all’interno del tempio si è svolto con modalità opposte a quelle esterne. Una strumentalizzazione perniciosa, perché ammantata dei soliti 'buoni sentimenti', che va rispedita al mittente, perché la Chiesa contro la mafia sta facendo la sua parte. E continuerà a farla. Anche a Roma.
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