Ma così il taglio dei parlamentari non riforma e non risolve
domenica 6 ottobre 2019

Domani la quarta e definitiva votazione parlamentare sulla riforma costituzionale che ridurrà drasticamente il numero dei membri delle due Camere. A lungo invocata e attesa dal Movimento 5 Stelle e più in generale da tutte le propaggini dell’antipolitica, questa riforma costituzionale è stata 'imposta' dai grillini dapprima al programma di governo giallo-verde e ora a quello giallo-rosso. Se otterrà via libera a maggioranza assoluta la prossima settimana, questa riforma costituzionale potrà essere fermata solo da un referendum confermativo, che è improbabile venga richiesto ed è ancor meno probabile possa avere successo in una stagione in cui per diverse e non tutte razionali cause - il ruolo degli 'eletti' è malcompreso e meno stimato.

Di fronte a questa riforma sembrerebbe possibile solo esprimere rallegramenti o, al più, ci si potrebbe limitare a fare spallucce. Dopo tutto, il numero dei parlamentari, considerando i membri sia della Camera che del Senato, pari a 945 (senatori a vita esclusi) è più elevato di quanto dovrebbe essere per un Paese delle dimensioni dell’Italia (anche considerato che dal 1970 esistono pure i 'parlamentari' regionali, che compongono i Consigli regionali). La riforma voluta dal M5s ridurrebbe i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Che male c’è? In realtà esistono due ordini di obiezioni a questa riforma.

La prima: due Camere più piccole rappresenterebbero con più difficoltà le minoranze politiche e sociali e lascerebbero nell’ombra molti territori (quelli appenninici, ma anche alcune aree del sud o dell’arco alpino) già afflitti dallo spopolamento e dal declino economico. Inoltre un Senato di soli 200 membri dovrebbe essere del tutto ripensato quanto alle dinamiche di funzionamento interno, che attualmente presuppongono che esso funzioni in maniera simile alla Camera dei deputati. Le due obiezioni sono sensate, ma almeno la seconda può essere superate in sede di attuazione, ad esempio, con una riforma organica del Regolamento del Senato. Per questo motivo, la vera obiezione è un’altra e riguarda non la riduzione del numero dei parlamentari in sé, ma il fatto che essa intervenga acriticamente su entrambe le Camere e soprattutto che rinunci del tutto a ridefinire il ruolo di ciascuna di esse e a ridisegnare il bicameralismo italiano. Lasciando quindi intatto l’attuale bicameralismo perfetto e paritario, che nel contesto di un regime parlamentare è unico al mondo ed è privo di una ragione giustificativa.

Due Camere doppione e fotocopia che fanno le stesse cose e che non funzionano come contropoteri, né esprimono logiche rappresentative diverse. Di questi limiti si è discusso nello scorso anno, quando la riforma è stata approvata nelle prime tre votazioni, seguendo il procedimento previsto dall’art. 138, che ora dovrebbe concludersi. E di esse si è fatto portatore in particolare il Pd, che però, al momento della formazione del secondo governo Conte, si è piegato al diktat dei Cinquestelle, accettando di sostenere la riforma. In cambio i democratici hanno ottenuto che siano previsti alcuni 'correttivi'.

Questi, però, sono per ora eventuali, dato che dovranno essere inseriti in un altro disegno di legge costituzionale, che dovrebbe, fra l’altro, ridurre a 18 anni l’elettorato attivo per il Senato (attualmente è fissato a 25). Essi, inoltre, appaiono risibili: è il caso della riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica, che attualmente sono 58 su circa mille grandi elettori e che diverrebbero 58 su 600 se passerà la riduzione dei parlamentari.

Dunque dal 6 per cento attuale diverrebbero il 10: una variazione senza rilevanza, mentre, anzi, si dovrebbe forse procedere in direzione opposta, magari aumentando il numero di tali delegati, portandolo, come in Germania, allo stesso numero dei parlamentari, in modo da svincolare la maggioranza che elegge il Capo dello Stato da quella che dà la fiducia al governo. Lasciando da parte l’altra questione che il Partito democratico ha messo in agenda – una possibile (e contrastata) riforma elettorale nel senso di un sistema proporzionale puro, che merita una riflessione a sé stante – lo scenario appare desolante. La riforma che si delinea – nelle sue due tappe – è sprovvista di una ragione giustificativa forte.

Lascia intatti tutti i vizi del nostro bicameralismo e l’irrazionalità del procedimento legislativo. È, nella sostanza, costituzionalmente, inutile, ma essa serve a un partito a mettere in Costituzione una sorta di 'bandiera', anche se sganciata dai problemi reali. Un po’ come la riforma Tremaglia che nel 2000-01, con due leggi costituzionali e una legge ordinaria, inserì nella Carta costituzionale la circoscrizione estero e il voto per posta degli italiani all’estero, creando la singolare categoria di 12 deputati e 6 senatori che deliberano le leggi e le tasse cui è sottoposto chi vive in Italia, ma sono eletti da chi vive stabilmente – talora da alcune generazioni – all’estero, in barba al secolare principio costituzionale che esige una connessione fra rappresentanza politica e potere impositivo ( no taxation without representation). Siamo, insomma, nell’era del constitutional nonsense. Ma gli applausi non mancheranno.

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