sabato 7 novembre 2015
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Ogni sapienza non ingannevole è un coro di voci diverse. Una sola voce, per quanto sublime, non è sufficiente per dire la polifonia della vita. Anche la sapienza biblica è plurale, sinfonica, variopinta. Vive di tradizioni differenti, dove ciascuna sviluppa la sua nota unica che risuona solo assieme alle altre. Se una nota manca la musica si impoverisce e diventa qualcosa d’altro, perde armonia, bellezza, profondità. Solo l’ideologia è monotòna, singolare, monocolore. Il lavoro più difficile ma essenziale di chi si accosta onestamente al testo biblico per lasciarsi toccare e contaminare da esso, sta nel tenere assieme il Cantico e Giobbe, Daniele e Qohelet. Qohelet, nella sua originalità e dissonanza, pensa e vive dentro l’umanesimo biblico. Ne è suo erede e continuatore. L’incipit del libro – «Parole di Qohelet, figlio di Davide, re a Gerusalemme» (1,1) – dice già molte cose. Qohelet, forse un nome collettivo, mette le sue parole sotto le ali dell’icona biblica della sapienza, Salomone («figlio di Davide»). Ci dice subito che il suo sarà un discorso sulla sapienza in nome del re più saggio di tutti. E se questo libro è rimasto dentro il canone ebraico e cristiano è perché gli antichi scribi e rabbini hanno creduto al suo autore, hanno sentito dentro quel canto diverso la sapienza e la verità bibliche. Salomone e Gerusalemme, scelte come prime parole, formano le coordinate geografiche e culturali del discorso di Qohelet. Siamo dentro la storia biblica, nella città santa. In ogni testo biblico l’uomo è l’adam, e la terra, il sole, il mare, i fiumi, sono quelli di "Genesi" 1. Anche per Qohelet, che non ce lo dice perché nel suo mondo non serviva dirlo, ma noi dobbiamo saperlo mentre iniziamo a leggerlo. La lettura generativa di ogni pagina della Bibbia è sempre, e forse "soltanto", la prima. Il ricordo deve operare dalla fine verso l’inizio, non viceversa. Per sperare che quelle parole ci parlino, dobbiamo ascoltarle come fosse la prima volta. Cominciando da quella più celebre: «Vanità delle vanità, dice Qohelet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (1,1-2). Nuovi interpreti di Qohelet continuano a proporre nuove traduzioni di quell’antico e tremendo: "habel habalim, hakkol habel": "Vanità delle vanità, tutto è vanità". L’altro "cantico dei cantici". Tutto è "habel": tutto è fumo, soffio, vento, vapore, spreco, assurdo, vuoto, nulla. Fumo di fumi, vento di venti, soffio di soffi, spreco di sprechi, assurdo di assurdi, tutto è soltanto un infinito nulla. Ma all’antico ascoltatore del libro del Qohelet, quell’"habel" prima di ogni altro significato suggeriva un nome: Abele, la vittima della mano di Caino, il giovane ucciso nei campi nella prima notte oscura del mondo, quando il primo sangue a bagnare il suolo fu quello del primo fratello. Abele, la cui vita fu breve, soffio, effimera, fragile, innocente, vulnerabile, ferita mortale. "Tutto è Abele" – canta Qohelet. Sotto il sole la terra è popolata da infiniti Abele. "Il mondo è pieno di vittime", di sangue innocente versato, di fraternità che mutano in fratricidi. La condizione umana è effimera come lo fu la vita di Abele. È soffio di vento ("ruah"), e restiamo vivi solo se e fino a quando quel soffio invisibile e delicatissimo è vivo. L’"adam" di Qohelet non è Caino: è Abele. Prima di essere peccatore l’uomo è un essere effimero e fragile, soggetto alla morte e alla caducità. È in questo orizzonte di fragilità, che abbraccia tutte le cose "sotto il sole", che Qohelet vede anche il lavoro umano e il suo profitto: «C’è un profitto per l’uomo, in tutto lo sforzo che fa, penando sotto il sole?» (1,3). Il lavoro ("amal") è visto come fatica, travaglio, dolore. E che cos’era il lavoro, nel Vicino Oriente di ventitré secoli fa, se non fatica e dolore? La prima immagine di lavoratori che veniva in mente al lettore biblico era quella dei costruttori di mattoni, schiavi in Egitto. E che cos’è il lavoro vero anche oggi per la stragrande maggioranza delle persone, se non anche e soprattutto fatica, travaglio, generazione di vita tramite il dolore? Il resto è quasi sempre romanticismo e retorica di non lavoratori che osservano il lavoro degli altri troppo da lontano. La parola che Qohelet pone tra "habel" e "adam" è "yitron": profitto. Il profitto è la prima parola "culturale" del libro, espressione perfetta di quella religione che prometteva e promette di vincere con il successo economico l’effimero della condizione umana. Questi primi versi non sono una morale sui profitti e sull’economia; ma nel scegliere "profitto" come sua prima parola umana Qohelet ci ha voluto dire qualcosa di importante. "Yitron" era un termine del linguaggio economico della nuova religione dei commerci e dei guadagni facili. Per dire la vanità della vita e del lavoro Qohelet poteva prendere una parola dal vocabolario morale o teologico. La prese invece da quello commerciale, per dirci che esiste un legame strettissimo tra la "vanitas" e l’economia, e mandare così un messaggio chiaro alla sua cultura che, quasi come la nostra, vedeva nel profitto e nel denaro la prima cura della vanità, la prima sicurezza di fronte all’incertezza della vita, il primo segno con cui Dio benedice la vita non-vana del giusto. La prima vanità è pensare che il denaro possa eliminare o ridurre la vulnerabilità radicale della vita umana. A fronte della fragile ed effimera condizione esistenziale dell’"adam", Qohelet ci mostra la perennità dell’"adamah", della terra: «Vengono al nascere i nati e vanno via, e da sempre la terra è là. E il sole che si leva è sole tramontato, per levarsi di nuovo dal suo luogo. Il vento che va a sud, è per virare a nord. Il vento gira e rigira, altro non fa che giri. Tutti i fiumi si versano nel mare, eppure il mare non si riempie mai. E i fiumi continuano a gettarsi sempre nello stesso punto» (1,4-7). Dentro questo mondo delle cose che "stanno" e permangono, l’"adam" sente l’insufficienza della sua parola, della sua vista, del suo udito: «Tutte le parole si stancano, e l’uomo non sa parlare. Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire» (1,8). La povertà della parola, dell’occhio e dell’orecchio, sono l’esperienza dell’incapacità degli umani di dire la vita, di ascoltare veramente i suoni del mondo. Vediamo attraverso un vetro opaco. Siamo indigenti di parole, di sguardi e di ascolto, e non accediamo alle cose più profonde e vere della vita. Era vero ieri, e oggi lo è di più: siamo immersi in mezzi potentissimi per scrivere, sentire, vedere, ma quando ci innamoriamo, soffriamo, o vogliamo consolare un amico, risentiamo l’antica indigenza di Qohelet. I potenti media non riducono, ma amplificano, la stanchezza delle parole. La vita dell’uomo passa velocemente nella sua miseria di tempo e di conoscenza. La terra, i fiumi, i mari, restano invece lì, nel loro mistero e nel loro tempo senza tempo. Qui Qohelet ci fa entrare un poco nel cuore dell’uomo antico, prima che la scienza gli spiegasse il "ciclo dell’acqua". Nel mistero e stupore che avvertiva quando, seduto sulla riva del fiume, osservava lo scorrere eterno dell’acqua, o quando da un’altura guardava l’estuario e si chiedeva «come può la grande acqua del mare rifornire la piccola sorgente nella montagna?». E mentre guardava fiumi e mari nel loro eterno ritorno, quell’antico uomo vedeva il vecchio e il bambino morire, e sentiva la fragilità del proprio soffio che lo abitava temporaneamente e di cui non era il padrone. Qohelet ci raggiunge dentro il nostro tempo pieno di novità che hanno prolungato il tempo del nostro soffio, parla a noi ebbri di una tecnica che vuole farci padroni dell’ultimo fiato nostro e del primo dei nostri figli. Se riusciamo a intuire qualcosa di quell’antico primo sguardo sul mondo e su noi stessi, se risentiamo lo scorrere nostro e il restare della terra, dei sassi, delle montagne, dei mari, può fiorire una nuova riappacificazione con l’eterno e con la nostra finitezza. Possiamo diventare più uomini e più parte di quel "restare". L’"adam" è a un tempo «poco meno di Elohim» (Salmo 8) e appena vapore. È l’unico sul pianeta capace di pregare e pensare l’universo, ma di fronte alla forza e alla "eternità" di un masso o di una cascata sente di essere come canna battuta dal vento. Tutte le ideologie e le malattie antropologiche nascono quando salta questa ambivalenza, quando non riusciamo più a tenere assieme la nostra dignità infinita con la nostra infinita fragilità. Ogni preghiera non-vana si eleva da un canneto sotto un cielo che si spera e crede non vuoto. E quando, seduti nei canneti dei nostri fiumi ormai svuotati anche del loro mistero, ci raggiunge il verso: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (1,9), possiamo solo dire con Qohelet: è vero. «Ogni sarà già fu, e il si farà fu fatto», una frase che, forse, è controcanto a quel nome impronunciabile e assente – YHWH: «Sono colui che sono e che sarà». E poi chiederci: nella nostra dimensione esistenziale, siamo oggi davvero diversi dal primo Adam? Dove sono le vere novità rispetto a Eva, Noè, Lamek? Se proviamo a guardare veramente la Siria, il Sinai, le stazioni di notte, Roma, come non ripetere qui ed ora: «Tutto è un infinito Abele». Dove sono, sul terreno antropologico (quello che interessa a Qohelet) le innovazioni? «C’è forse qualcosa di cui si possa dire: "Ecco, questa è una novità"?» (1,10). Dove sei diverso da Caino e da Abele, "uomo del mio tempo"? Qohelet lascia il punto di domanda nel suo verso, e noi non possiamo, né vogliamo, più toglierlo. Ogni umanesimo non-vano deve partire da quel punto interrogativo per mettersi in ricerca di una novità. La novità di Abele che torna dai campi questa volta insieme a suo fratello, del fratricidio che risorge fraternità. E non smettere di camminare nelle città e nei deserti finché non rivedremo i fratelli insieme. l.bruni@lumsa.it
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