Una catechesi fuori programma, senza cattedre né pulpiti, e persino senza Papa. Un annuncio zampillato all’improvviso, ad altezza d’uomo. Dall’istante in cui è volata in ogni angolo della terra la notizia della morte di Francesco, ormai nove giorni fa, la Chiesa si è trovata all’istante senza il Papa che ne è stato per dodici anni il volto, l’anima e la voce e, allo stesso tempo, esposta nella sua interezza a essere guardata per quello che è. Da lì in poi, lungo i giorni del dolore e del lutto, partendo dai funerali per poi arrivare a Santa Maria Maggiore, e poi ancora adesso e sino al Conclave, è diventata pienamente visibile davanti all’umanità sgomenta e incuriosita la natura della Chiesa con tutto il suo messaggio di speranza, di gioia, di pace. Una grande catechesi, che ha mostrato a tutti in cosa crede chi crede, e a chi crede in cosa è stata cresciuta la sua fede. Piangendo un grande Papa che ha lasciato trasparire il Vangelo, come un’eco delle Beatitudini lungo dodici anni, la Chiesa si è trovata ad aprire il Catechismo nelle pagine dove si legge cos’è e cosa annuncia al mondo di oggi, lasciandolo sfogliare attraverso le vicende che andavano accadendo dentro, attorno e davanti a San Pietro. Ha aperto il suo cuore, come aggiungendo un ultimo capoverso postumo alla più recente enciclica di Francesco, Dilexit nos, che al cuore – di Dio e nostro – è dedicata. Un cuore sofferente ma non spezzato. Perché i fatti che tutti hanno osservato non esauriscono la realtà, infinitamente più estesa e coinvolgente di quello che appare: perché tutto quello che abbiamo visto indica che c’è un oltre, un orizzonte con le braccia aperte come il colonnato della Basilica petrina, uno spazio umano dove trova risposta la nostra ricerca di un senso al vivere.
C’è un’immagine che riassume questa capacità della Chiesa di dirsi all’umanità e a ogni persona, ai potenti e ai ragazzi, ai cardinali, ai poveri, a chi non crede: ed è il grande arazzo del Cristo risorto appeso alla facciata di San Pietro che durante il funerale del Papa e, il giorno dopo, davanti a una folla colorata di giovanissimi ha ricordato che siamo fatti per la vita, e che il nostro limite umano cerca il “per sempre”. Il Papa stesso che con tutta la sua straordinaria storia, gli insegnamenti, la sua testimonianza giaceva davanti all’altare sembrava ci ricordasse che non si vive per niente di meno dell’eternità. E a garantirci che questa nostalgia inseparabile dalla nostra natura è vera c’è il Risorto pronto a prendere per mano la nostra vita e farla diventare senza fine, insieme a lui.
Attorno al Papa morto, per questo, non si è avvertita la disperazione di una fine, ma la responsabilità di una consegna, ognuno la sua. Francesco nel corso del suo ministero da Vescovo di Roma ha rivolto le parole di eternità custodite dalla Chiesa direttamente a ciascuno dei 35 milioni di donne e uomini – ognuno con il suo nome e la sua storia – che l’hanno incontrato a Roma, secondo le cifre diffuse dalla Santa Sede, come ai tanti altri presenti lungo i percorsi dei suoi viaggi, e a tutti quelli che l’hanno visto e ascoltato sentendosi interpellati in prima persona. La Chiesa non è “folla” né “gente”, ma persone, e il loro stare insieme non è convivenza ma relazione, comunità. Le voci di chi ha reso omaggio al Papa nei giorni scorsi, e ancora lo sta facendo davanti alla sua tomba, dicono che ognuno ha sentito Francesco “suo”, ne ha compreso una parola, gli deve qualcosa di personale, avverte la forza di un legame che non si perde proprio perché personale. E per questo è destinato a dare frutto, anche dopo che dal balcone di San Pietro un altro Vescovo si affaccerà, per confermare con la sua stessa persona – chiunque sia – che Dio non ci lascia mai soli. Lo dicono i sacerdoti che hanno accompagnato i ragazzi a Roma per le loro giornate giubilari, coincise in modo inimmaginabile con una riflessione sulla vita, il suo senso e il suo destino, e che si sono visti chiedere di potersi confessare. Proprio quando lo potevamo pensare silente, il Seminatore è uscito una volta ancora a seminare, a piene mani. E l’ha fatto mentre tutto mostrava che la nostra esistenza ha una dimensione soprannaturale determinante per capire per cosa stiamo al mondo. Il sacro non è esclusiva di un manipolo di appassionati ma lo scenario che avvolge la nostra esistenza. La Chiesa ha spiegato una volta ancora, e con chiarezza globale, che di questo viviamo e non del poco che ci è dato di brucare dal consumismo, dalle ideologie, dalla tecnologia quando diventa idolo. La vita stessa è sacra, perché eterna, come il nostro destino.
A rendere tangibile questa intuizione che ha attraversato i giorni attorno alle esequie è stata la liturgia – lingua millenaria della Chiesa – che ha rimandato alla grandezza della vita di ciascuno, allo spazio infinito che ci sta proprio dentro se appena abbiamo il coraggio di aprirlo. L’ha fatto attraverso le sue solenni cadenze, i tempi e i ritmi, le parole e i suoni, lo stesso latino, lingua madre e non certo codice per addetti ai lavori o militanti di loro cause. Abbiamo visto il Vangelo aprirsi alla pagina dove la Chiesa diventa quel che è: Spirito Santo che invia sino agli estremi confini della terra, ognuno i suoi. In questi giorni siamo chiamati per nome: perché ora che attendiamo un altro Papa ci viene ricordato con tenerezza, tra lacrime e speranza, che la Chiesa siamo noi.