L’importanza delle parole giuste
martedì 29 novembre 2016

Non si può mascherare la verità. Bisogna farci i conti Chi spende la vita al servizio delle parole (scrivendo, leggendo, insegnando), impara a rispettarle: nelle nostre parole c’è la nostra verità, quel che noi siamo. Lavorando sulle parole, gioisci quando le vedi usate bene, soffri quando le vedi usate male. In questo momento sto soffrendo. Perché ho qui davanti una notizia, lanciata da un’agenzia, che dice: «'Ho fatto una stupidata', imprenditore strangola la moglie davanti ai figli».

Corro al testo: a Seveso, in provincia di Monza e Brianza, un imprenditore di 56 anni ha strangolato con le sue mani la moglie di 29, una peruviana, davanti ai figli. La chiama «una stupidata». La «stupidata» non l’ha confessata ai carabinieri, ma a un parente. È stato il parente ad avvertire i carabinieri. A cosa serve quella parola, così palesemente inadeguata? A mascherare la verità: se dicesse 'ho ucciso' si presenterebbe come un assassino, dicendo 'ho fatto una stupidata' si presenta come uno stupido. Ho subito notato lo spostamento dell’espressione, da una grave (la più grave) colpa morale a un leggero (il più leggero) errore intellettuale, perché mi era già capitato di sentirlo poco prima, nel resoconto della visita di un ex calciatore al carcere della mia città, il Due Palazzi. Anch’io ho visitato il Due Palazzi.

Non puoi visitare un carcere perché lo vuoi tu, devi avere una entratura istituzionale. Nel mio caso, accompagnavo un consigliere regionale, passavo con lui nei corridoi e nei cortili, e spiavo nelle celle. Ho capito così (so di stare deviando, ma la deviazione ha la sua importanza) che la pena di chi entra in un carcere è sempre maggiore della condanna emessa dal tribunale. Il carcere aggiunge altre sofferenze in più. Se non vedi un carcere, non lo puoi capire. Ne dirò una, di queste pene aggiuntive: una cella costruita per due o quattro lettini ne ha almeno sei, a castello, tre addossati a una parete e tre all’altra. In mezzo alla celletta, piccolissima, sta il water. Sicché sul water c’è sempre qualcuno seduto, e intorno tutti gli altri, che non hanno niente da fare, lo guardano. Per creare un minimo di privacy, i detenuti velano la lampadina, sempre accesa, pendula dal soffitto, con uno straccio di tela juta. In questo carcere è capitato a far visita Tardelli, mitico calciatore italiano, famoso nel mondo per l’urlo sterminato che lanciò a un mondiale dopo aver segnato. Tardelli parla con alcuni detenuti.

Uno gli fa: «Sono qui perché ho fatto un errore, ma anche tu ne hai fatto uno, quando sei andato all’Inter». Frase malignamente astuta. Perché chiama «errore» la colpa del detenuto, cioè la trasferisce dal piano morale al piano mentale. Poi perché mette sullo stesso piano l’errore del giocatore dell’Inter. Quale sarà stato l’errore del detenuto? Avrà ucciso? Beh, giocare nell’Inter, invece che nella Juve o nel Milan, può anche essere un errore (ma c’è chi pensa di no), però non è paragonabile a uccidere. Ora, il problema è che chi commette delle gravi colpe e le chiama 'stupidate' o 'errori', lo fa con tutti, 'l’errore che ho commesso io, l’errore che hai commesso tu', e alla fine convince se stesso di aver fatto solo uno sbaglio. Perde la coscienza del rapporto tra delitto e castigo.

E quindi dell’espiazione. Moglie e figli imparano ad accettare il suo lessico. Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno un film su un padre a cui un ragazzino ha ucciso il figlio per una bravata. Questo padre insegna ai ragazzi a diventare falegnami. Càpita da lui proprio il ragazzo che ha ucciso suo figlio, ormai messo in un circuito di recupero. Il ragazzo non sa che quel falegname è il padre della sua vittima. Il padre ha dei sospetti, e cautamente chiede: «Perché sei andato in carcere?». Silenzio in sala, durante la proiezione. Poi si sente la confessione del ragazzo in questi termini: «Ho fatto una ca...ta». Sempre parole sbagliate, inadeguate, svianti, scelte per non dire, per negare. Raskòlnikov la confessione la fa in un quadrivio, a tutti quelli che passano. Nel timore di non essere capito, la ripete. La sua storia s’intitola 'Delitto e castigo', la storia di questi assassini potrebbe intitolarsi, al massimo, 'Delitto e bugia'.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: