venerdì 29 aprile 2016
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Come salvaguardare l’equilibrio demografico dell’Italia Di fronte ai segnali di debolezza che il bilancio demografico del 2015 ha messo in luce – dal record della più bassa natalità mai registrata dai tempi dell’Unità Nazionale al preoccupante rialzo della mortalità sino al forte calo degli stessi residenti – viene da chiedersi quale sia il modello di popolazione che potremmo attenderci qualora le tendenze che andiamo osservando dovessero consolidarsi e diventare espressione 'normale' del comportamento degli italiani. Rispetto alla dimensione numerica la risposta è agevole e immediata. C’è infatti una formula che consente di calcolare il totale di abitanti che spetterebbero a un collettivo demografico sulla base dei livelli di natalità e di mortalità che esso esprime, semplicemente facendo il prodotto tra la frequenza annua di nati e la durata media della vita (la così detta 'speranza di vita alla nascita'). Per l’Italia tale formula mostra che se si dovesse registrare costantemente 488 mila nascite e una speranza di vita di 80 o 85 anni rispettivamente per maschi e femmine – come è accaduto nel 2015 – la popolazione residente andrebbe via via riducendosi sino a stabilizzarsi a 'crescita zero' attorno a 40 milioni di abitanti. In assenza di apporti migratori, il comportamento demografico espresso oggi dal nostro paese, se dovesse persistere senza alcun cambiamento, ci porterebbe dunque a una dimensione demografica ridotta a 2/3 di quella attuale. Anche senza voler rilanciare, seppur in chiave moderna e con argomentazioni politico-economiche, l’idea che 'il numero è potenza', non sembra difficile cogliere gli effetti rivoluzionari, e verosimilmente problematici, di tale trasformazione. Una trasformazione che pare altresì destinata a consegnarci un ulteriore aumento del rapporto tra anziani e popolazione in età attiva, ossia di quell’indice di carico sociale la cui crescita va di pari passo con l’incremento dell’incidenza della spesa 'legata all’età' (pensioni e sanità in primo luogo) sul prodotto interno lordo. Attualmente tale indice è pari al 36% (circa un anziano ogni tre attivi), ma nello scenario che vede la stabilizzazione al livello di 40 milioni di residenti si prevede possa raggiungere il 43%. Con tali premesse, non sorprende osservare come l’immigrazione straniera venga spesso chiamata in causa quale rimedio tanto per il calo numerico, quanto per l’invecchiamento demografico: «gli immigrati impediscono la decrescita», «salvano le nostre pensioni», «raddrizzano i conti del welfare». Non vi è dubbio che attraverso un saldo migratorio positivo sia possibile compensare – come per altro è avvenuto fino a circa dieci anni fa – il deficit tra nati e morti e consentire una certa stabilità del totale degli abitanti, ma poiché per mantenere l’Italia a 60 milioni di abitanti sarebbero necessari annualmente – in base alla formula di cui si è detto – 728mila nati (ben più dei 488mila del 2015), ci si chiede se sia ragionevole supporre/auspicare che i 240 mila mancanti vengano interamente recuperati attraverso altrettante migrazioni nette. È ben vero che sul piano strettamente contabile nati e immigrati sono unità equivalenti, ma non è detto che siano anche del tutto fungibili. Se infatti ragioniamo in termini di carico sociale, mentre un neonato è destinato a fornire alla società cui appartiene un contributo per l’intero intervallo di età lavorativa (convenzionalmente 20-64 anni), ogni immigrato che giunge in età superiore alla soglia di ingresso nel mercato del lavoro (e che si sia definitivamente stabilito nel Paese ospitante), offre un contributo assai più ridotto per la fase produttiva, mentre da luogo a un carico sociale identico per quella di quiescenza. D’altra parte, con qualche esercizio di simulazione è facile verificare come la tanto enfatizzata riduzione del carico sociale attribuita ai 'giovani immigrati' sia un beneficio del tutto transitorio. Nel lungo periodo gli effetti dell’ipotetica compensazione derivante dalla sostituzione dei neonati con immigrati sono destinati a produrre un accrescimento del carico sociale, con un’intensità che sarà tanto più accentuata quanto più i flussi di immigrazione saranno caratterizzati da soggetti giunti da noi in età matura. In ultima analisi, non si tratta certo di mettere in discussione il valore dell’immigrazione a supporto della vitalità demografica di un Paese che da quasi quarant’anni non è capace di garantirsi adeguati livelli di ricambio generazionale, bensì di riconoscerne la reale portata. Giusto per evitare che, sopravvalutando gli effetti (temporanei) dell’immigrazione, si rischi di ritenere meno pressante quell’azione di sostegno alla fecondità – e conseguentemente alla famiglia – che da più parti viene rivendicata come indispensabile per salvaguardare a lungo termine gli equilibri demografici nella popolazione italiana. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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