Idolatria del Caso e avversione ai bambini nell'arma impazzita a Las Vegas
mercoledì 4 ottobre 2017

Caro Avvenire, debbo dire che mi stupisce che negli Stati Uniti d’America le stragi non siano più numerose poiché consentire la vendita di armi da guerra (per quale guerra poi?) vuol dire essere assolutamente irresponsabili visto che i pazzi, i depressi e i disperati ci sono ovunque e la potenza di fuoco di queste armi è micidiale.

Roberto Nuara Monza


Abitava in una residenza di lusso riservata agli ultra cinquantacinquenni, palestre e piscine, soggiorno vietato ai bambini, Stephen Paddock, 64 anni, l’assassino di Las Vegas. Singolare scelta, una sorta di riserva indiana per maturi benestanti che non vogliono essere neanche per sbaglio disturbati dallo strillo di un ragazzino. Gente, se ne deduce, che come Paddock non ha figli né nipoti, che si approssima sola al traguardo della vecchiaia. E allora la residenza vietata ai bambini è a cento chilometri da Las Vegas, dove c’è sempre modo di tirare sera, e notte, e di sfidare il destino. Così il signor Paddock, giocatore accanito, scommettitore di alto bordo, s’era trovato una residenza a sua misura. In meno di un’ora si era al tavolo verde, anzi, alla più megagalattica città del gioco d’azzardo che si possa immaginare.

Il college, la passione per la caccia, un buon conto in banca, qualche multa per eccesso di velocità. La biografia di Paddock è sotto molti aspetti un monumento al cittadino normale, che non lascia traccia di sé sulle cronache. Forse era quello che lui voleva, segnato come era da un padre rapinatore e super ricercato, ai suoi tempi, dal Fbi. Il padre con tendenze depressive e suicide cui Stephen somigliava, fisicamente, come una goccia d’acqua. Forse a quell’ombra, nella sua agiata vita normale, cercava di sfuggire? Un demone lo inseguiva però, instancabile: l’azzardo. Migliaia e migliaia di dollari per puntata. Vincere tanto, perdere tanto, perdere di nuovo. Sfidare, forse, con fatui calcoli di possibilità, l’impossibile?

L’insondabilità dei numeri che girano, girano veloci sulla roulette, mentre la pallina capricciosa salta, e esita a scegliere.

L’ossessione dell’azzardo ha già in sé qualcosa di cieco e disperato. Non si sfidano i numeri, come non si può sfidare l’infinito. E perché poi, parallela alla roulette, quella passione per le armi? Fino a arrivare a possedere decine e decine di armi e ben 19 fucili. Di che armare un piccolo esercito. L’esercito interiore dei cattivi pensieri di un buon cittadino. Incensurato, apolitico, mai fatto del male a nessuno. Nella quiete della sua residenza medita le prossime giocate, e lucida le canne dei fucili. Nuovi di zecca. Mai usati. Mi immagino il signor Paddock che apre e chiude i caricatori, compiaciuto dello scatto dei meccanismi ben lubrificati. Dice il signor Nuara che pazzi e depressi ci sono ovunque, ma che mettere a disposizione di tutti le armi da fuoco crea un cocktail micidiale. Verissimo, ma si sa che gli Usa non sembrano capaci di desistere dal libero porto d’armi. Sembra il dogma della fede di antichi pionieri, suggellato da un mercato da centinaia di milioni di dollari: quanto al difendersi, ciascuno per sé e Dio per tutti. Dio, forse. Ma nella tragedia di Las Vegas Dio sembra il grande assente. Non c’entra, Dio, con quelle roulette disubbidienti, con quella città di luci, numeri e specchi, con la solitudine di Paddock. Nella vertigine di una solitudine avversa ai bambini e idolatra del Caso scoppia come una bolla di ascesso, in silenzio, un odio immenso. Con il calcio di un fucile Paddock sfonda la finestra della sua camera all’hotel Mandalay, alta nella gran torre di vetro. Giù in basso gli uomini sembrano formiche: si agitano, ballano, cantano. Le canne dei fucili lucenti, allineate contro il muro. Fuoco, le prime formiche cadono e si contorcono. Quello no, quello no, quello sì. Perché quello sì? Per nulla: nella roulette impazzita di una inaudita voglia di morte.

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