martedì 15 luglio 2014
Bilancio in chiaroscuro per un calcio ancora in cerca d’anima
di Massimiliano Castellani
COMMENTA E CONDIVIDI
​Il sipario di Brasile 2014 è appena sceso. La notte di Copacabana inghiotte le ultime grida di gioia dei tedeschi e la tristezza del popolo argentino, sbarcato in centomila unità (una colonizzazione vincente mancata) al porto di Rio de Janeiro, l’ha portata via le onde impetuose dell’Atlantico. Un altro Mondiale, quello più atteso (dopo 64 anni) nel País do Futebol spegne i riflettori, saluta e se ne va in archivio. E noi, fermi a questa stazione carioca, in attesa del prossimo vagone che ci porterà nell’ex madre sovietica, Russia 2018, ripercorriamo con tenace memoria di cuoio le tappe salienti di questo emozionante diario brasiliano. La notizia finalissima è che la locomotiva dell’economia occidentale, la Germania, è anche il treno che viaggia alla velocità più alta sui campi di pallone. «Dobbiamo vincere!», aveva tuonato frau Merkel in stile kaiser, prima della notte magica del Maracanà. «E noi abbiamo vinto!», gli hanno risposto in coro al termine della finale, baciandola uno ad uno, tutti i ventitré fedelissimi di “Nero Wolfe” Joachim Löw. Ennesima dimostrazione, quella della fabbrica dei talenti alemanni, che nel calcio del Terzo millennio chi programma e lavora sul campo, anno dopo anno senza andare a sbandierare termini insulsi come “progetto”, alla fine ottiene il massimo. «Se insisti e resisti, poi vinci e conquisti», è la filosofia della nuova Scuola di Francoforte applicata dall’inizio del nuovo secolo alla “Mannschaft”.
La Germania corre più veloce ed è più forte di tutti perché, anche nel football, ha saputo fondere perfettamente tradizione con innovazione. L’organizzazione di uno “Sport di Stato” (quasi di stampo ex Ddr) rigido e severo – con accademie giovanili direttamente controllate dalla federazione –, ammorbidito da una multietnicità in seno alla nazionale che ha reso i “G2”, i figli di stranieri tedeschi, eroi esemplari di questa nuova Germania. Una selezione offensiva, in grado di segnare più di tutti, diciotto gol, e di subirne appena quattro in 660 minuti disputati, anche perché in porta schierano un gigante da Pallone d’Oro che risponde al nome di Manuel Neuer. Per noi il Pallone d’Oro 2014 andrebbe assegnato d’ufficio a questo degno nipotino teutonico del leggendario Lev Jašin (unico n. 1 nella storia ad aver vinto il prestigioso riconoscimento di France Football), mentre la Fifa (così come di solito fa la Uefa) continua a premiare Leo Messi – miglior giocatore del torneo (?) – al di là di ogni ragionevole dubbio sul n. 10 argentino. Il vero n. 10 di questo torneo per chi ha assistito attentamente da bordo campo, al di là dei sei gol segnati che lo incoronano capocannoniere assoluto, è stato il 23enne colombiano James Rodríguez. James meglio di Messi e anche dell’idolo di casa, schienata frantumante a parte, Neymar. Rodríguez è stata la vera stella nata e consacrata sotto il cielo del nuovo Maracanà. Messi, come quattro anni fa in Sudafrica, nella fase finale ha fallito non solo la missione realizzativa (le sue quattro reti le ha segnate tutte nelle gare del girone), ma anche quella di líder máximo ed erede effettivo di sua maestà Diego Armando Maradona. Gli argentini tristi e solitari, dopo la seconda finale persa contro i tedeschi, dovranno continuare a convivere con il mito o eterno spettro a questo punto, de “El Diego”, perché il “messia” Messi non è ancora pervenuto.
La sconfitta dell’Argentina è metafora allargata di quella dell’intero calcio sudamericano. I brasiliani hanno organizzato un Mondiale quasi perfetto, ma il dazio da pagare è stato quello di dover assistere e poi assolvere la peggiore Seleçao di sempre. Gli unici pezzi forti garantiti del Brasile di Felipao Scolari erano i due centrali difensivi, Thiago Silva e David Luiz, che al mercato delle vacche grasse del pallone assieme vengono quotati oltre cento milioni di euro. E per fortuna che c’erano questi due “baluardi” a guardia della difesa del povero Júlio César, che ha chiuso con il peggior passivo di sempre: quattordici reti subite. Il “Mineirazo”, il 7-1 incassato contro i campioni del mondo della Germania, rappresenta la fine del mito del jogo bonito brasilero. Sulla maglia verdeoro di Neymar e compagni sta ancora cucita la scritta: «Nati per giocare a futebol», ma questa generazione non rappresenta più la massima espressione del calcio, ed è tempo che si riscriva la storia dopo il 1° trionfo europeo sotto le stelle sudamericane. Il bel gioco della tradizione latina l’hanno espresso le tre “sorellastre” della Seleçao, Messico, Cile e la Colombia di Rodríguez, che si è spinta più in là di tutte, ma è uscita comunque agli ottavi. Stessa sorte per il calcio africano, con l’Algeria – negli ottavi ha resistito stoicamente fino ai supplementari ai campioni tedeschi – che rappresenta l’unico segnale incoraggiante del continente, visto che è dagli anni 90 che Costa d’Avorio, Nigeria e Camerun continuano a recitare il ruolo di eterne promesse, mai mantenute. Non decolla neppure il calcio asiatico. Fuori dalle muraglie amiche si perde la Corea del Sud e, con il colosso sportivo Cina assente, ci si aspettava qualcosa di più di una eliminazione lampo dal Giappone del dimissionario Zaccheroni. Meglio l’Iran i cui progressi certificano che sul pianeta football le “cenerentole” non esistono più e la Costa Rica ne è la prova vivente. I “Ticos” costaricani sono usciti ai quarti – si sono arresi solo ai rigori all’Olanda – dopo aver fatto fuori ex potenze mondiali come l’Inghilterra e la nostra piccola Italia di Cesare Prandelli. Malus in fundo, gli azzurri. «Non ho ammazzato nessuno», è stato lo sfogo del nostro ex ct dall’esilio dorato di Istanbul. Infatti, il “delitto” ai danni del calcio italiano lo ha commesso questo sistema che impera almeno da Italia ’90, modello di gigantismo organizzativo (dodici stadi, appena emulato, tra sprechi, lacrime e sangue, dal Brasile) e di presunta superiorità tecnica sulla scorta di quattro titoli iridati conquistati. Per vittorie, siamo secondi – ora raggiunti dalla Germania – solo al Brasile “Pentacampeón”, ma per risorgere bisognerà andare a ripetizione dai tedeschi e ripartire dalla base. La Germania ha vinto anche perché nel suo organico figurano ben sei ex under 21, cresciuti a successi birra, crauti, ma anche sconfitte: dalla débâcle casalinga del 2006 contro l’Italia di Lippi, alla finale sfumata di Sudafrica 2010. Due colpi a vuoto di fila che da noi, nella Repubblica fondata sul pallone – sgonfio – avrebbero mandato al rogo il ct e interrotto bruscamente il “programma Löw”. I tedeschi invece, che in ogni campo, a cominciare da quello di calcio, guardano sempre al lungo periodo, nel contingente riescono a mettere da parte l’eccesso emozionale, tamponano l’euforia da “fiesta” e poi ripartono di slancio, senza mollare mai, per costruire un futuro che è già presente. Il futuro prossimo invece si chiama Russia 2018, e non sarà il “mondiale di un popolo” come quelle brasiliano, ma la kermesse dell’oligarchia e del gigantismo assoluto e corrotto, scaturito dal tandem offensivo – in ogni senso – Putin e Blatter. Con tutti i chiaroscuri e le contraddizioni possibili (quelle inimmaginabile purtroppo emergeranno presto a bilancio finanziario), Brasile 2014 ci ha riportato a una dimensione più umana e più vera del futebol. Un calcio, «che sa essere ancora favola, quando vedi i bambini brasiliani piangere per la sconfitta della Seleçao», ha giustamente sottolineato il nostro premier-tifoso Matteo Renzi, quindi lo sport più bello e universale che esista, molto prima di un’industria. Ma i soliti noti che impongono che il Mondiale del 2022 si dovrà giocare con cinquanta gradi all’ombra e nel deserto del Qatar degli emiri, state certi che hanno già provveduto a cancellare l’ultimo scampolo di umanità che il Brasile ha fatto di tutto per regalarci o per illuderci ancora.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: