martedì 14 luglio 2020
La mancanza di una politica industriale non può essere imputata all’integrazione che invece ha spinto le imprese a innovare La crisi? È nello sguardo di lungo periodo
Un saggio economico di Salvatore Zecchini smentisce nettamente la vulgata secondo la quale la moneta comune abbia penalizzato la competitività del settore manifatturiero Innovazione, conoscenza, ambiente, competenza, le ricette per rilanciare le imprese in un Paese in declino demografico

Un saggio economico di Salvatore Zecchini smentisce nettamente la vulgata secondo la quale la moneta comune abbia penalizzato la competitività del settore manifatturiero Innovazione, conoscenza, ambiente, competenza, le ricette per rilanciare le imprese in un Paese in declino demografico

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Circa 200 'vertenze' di politica industriale affollano le stanze del ministero dello Sviluppo economico: riguardano aziende con almeno 500 addetti, perché le altre, le medie e piccole, dovrebbero essere trattate e risolte a livello delle Regioni. Tra le grandi vertenze, alcune sono al centro del dibattito politico: si pensi alla nuova versione di Alitalia, agli impianti siderurgici dell’ex-Ilva di Taranto, al contenzioso relativo ad Atlantia e Autostrade per l’Italia. Ciascuno di questi 'casi' ha determinanti specifiche.

Tuttavia, da diverso tempo è in circolazione l’idea secondo cui l’unione monetaria (e, quindi, l’euro) avrebbe reso più rigido il contesto in cui opera il settore manifatturiero italiano e, di conseguenza, reso più frequenti le crisi industriali grandi e piccole. A questa ipotesi, se ne aggiunge una seconda: quella secondo la quale per decenni in Italia sarebbe mancata una politica industriale ben articolata, mentre sarebbero invece state messe in campo una serie di misure che Franco Debenedetti – che è stato alla guida di grandi aziende oltre che parlamentare e saggista – ha declinato nel libro 'Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale' (Marsilio, 2016). Una visione analoga circola da molto tempo: basta leggere il libro del 1972 di Giuliano Amato – allora Capo dell’ufficio legislativo del ministro del Bilancio e della programmazione economica Antonio Giolitti – 'Il governo dell’industria in Italia' (Il Mulino, 1972), in cui l’intervento pubblico nell’industria veniva caratterizzato quale impiccione e pasticcione.

Questi due testi non vengono tuttavia menzionati nelle circa trenta pagine di bibliografia analitica che concludono le 572 pagine a stampa fitta di 'Politica dell’Industria nell’Italia dell’euro' (Donzelli 2020) di Salvatore Zecchini, testo in uscita in questi giorni ma la cui presentazione avrà luogo nella seconda metà di settembre, probabilmente all’Istituto Sturzo. Zecchini è meno noto di Debenedetti e Amato e molti dei suoi saggi precedenti sono stati pubblicati in inglese. È stato direttore centrale della Banca d’Italia, vice segretario generale dell’Ocse, e direttore esecutivo del Fondo monetario, nonché consigliere di più di un ministro dell’Industria, presidente del Gme (il gestore del mercato elettrico) e dell’Ipi (Istituto per la politica industriale). Docente all’Università di Roma Tor Vergata, presiede, da circa vent’anni, il Gruppo di lavoro Ocse sulle medie e piccole imprese ed imprenditorialità.

Questo volume, che corona oltre vent’anni di ricerche condotte specialmente all’estero, smentisce la vulgata che l’Unione monetaria abbia agito da freno al settore manifatturiero italiano e che nel nostro Paese non ci stata una politica industriale. Il libro analizza in dettaglio piani, programmi e misure per il manifatturiero in Italia dalla nascita dell’euro al marzo 2020. L’analisi viene effettuando applicando per la prima volta in Italia una metodologia sviluppata dall’Ocse per studiare la politica industriale dei Paesi emergenti dell’Asia: i) definizione degli obiettivi possibilmente quantifi- cati; ii) stima strutturata dei costi dell’intervento, dei suoi probabili effetti e delle alternative possibili; iii) una verifica della capacità della pubblica amministrazione di gestire l’intervento; iv) l’effettiva capacità di monitoraggio, in itinere, degli effetti; v) una valutazione a posteriori (ove fattibile) che sia indipendente e permetta di trarre indicazioni per il futuro. Questo metodo viene applicato a ventun anni di politica industriale, convertendo in quantizzazioni economiche provvedimenti essenzialmente giuridici, nonché facendo raffronti con quanto messo in atto dai principali concorrenti dell’Italia.

Veniamo alle conclusioni. In primo luogo, l’assetto (in rapida evoluzione) dell’Unione europea in seguito all’unione monetaria ha rappresentato «uno stimolo e una guida, piuttosto che un ostacolo a perseguire politiche di rinnovamento strutturale e d’innovazione, in funzione produttività e competitività». La meticolosa indagine mostra che gran parte delle iniziative di politica industriale prese dai Governi che si sono succeduti del 1999 a oggi – dalla ricerca e innovazione alla concorrenza, all’energia, ai trasporti, alle piccole e medie imprese – «rispondono e si inseriscono nell’ambito di pluriennali programmi comunitari e sono annualmente monitorate dalla Commissione europea».

Tuttavia, i Governi hanno preso consapevolezza solo dalla crisi del 2012 che, dati i vincoli esistenti sulla leve di politica macro-economica (ossia i parametri attinenti al disavanzo e al debito), fosse necessario dare centralità a un insieme di misure di politica industriale che favorissero l’iniziativa imprenditoriale e orientassero le risorse verso l’innovazione, la ricerca, le tecnologie digi- tali e le infrastrutture immateriali, oltre che quelle materiali. Nell’ultimo biennio, però, la spinta riformatrice e di proiezione verso la digitalizzazione e la maggiore efficienza del sistema si è affievolita, si torna indietro su importanti riforme, si reintroducono rigidità, anche a ragione del calo del commercio mondiale, del crescente protezionismo e del clima di incertezza. Manca una dettagliata strategia e non sono chiari gli strumenti e le fonti di finanziamento che saranno impiegati. Si torna quasi indietro rispetto al primo decennio dell’unione monetaria quando la moneta unica era, al tempo stesso, una sfida e un incentivo a una politica industriale diretta all’innovazione e alla crescita, anche se gli esiti 'sono stati spesso deludenti'.

Quale la determinante principale? È mancata una visione complessiva, secondo lo studio, sugli scenari verso cui tendono la domanda e i mercati mondiali, da cui trarre gli obiettivi prioritari da perseguire nel Paese su un arco pluriennale. Le iniziative dell’Ue, nell’ambito dell’Unione monetaria, hanno, in parte, fatto supplenza a questa mancanza di chiarezza sulle mete da raggiungere, e sugli strumenti da attuare. Ne sono risultati piani specifici (ad esempio, energia) su tematiche attinenti a più Stati membri, ma la mancanza di una visione complessiva che affrontasse in parallelo i diversi freni allo sviluppo delle imprese e della produzione non ha reso possibile, specialmente all’arrivo della più recente crisi economica mondiale, un approccio che affrontasse, in parallelo, i diversi freni allo sviluppo delle imprese e della produzione. Ne è seguita, invece, una frammentazione delle misure.

Il lavoro indica quattro sfide principali che il Paese dovrebbe raccogliere: a) costruire un’economia della conoscenza e dell’informazione; b) realizzare la trasformazione del sistema produttivo attuale in una 'economia verde'; c) agevolare lo spostamento del lavoro verso nuovi e più elevati livelli di competenze; d) rianimare lo spirito e la 'demografia d’impresa' in un Paese «avviato verso il declino demografico e con una crescente componente di soggetti avversi al rischio per via dell’avanzare dell’età media». Sta alla politica raccoglierle.


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